Superiore dal 2006

L'assemblea del XIX Capitolo Generale dei Servi della Carità dell'Opera don Guanella riunita a Barza d'Ispra ha riconfermato Don Alfonso Crippa, già superiore generale nel sessennio 2006-2012, come nuovo Superiore Generale che guiderà la Congregazione dei Guanelliani nel prossimo sessennio 2012-2018.

Don Alfonso è stato educatore e formatore in Italia e Spagna, Delegato della Spagna, Superiore provinciale, economo provinciale e procuratore generale della Provincia Sacro Cuore, superiore della Delegazione "Nostra Signora della Speranza", che raggruppa le comunità guanelliane in terra d'Africa.

 

 

Superiore dal 1970 - 1980 

Nell'XI capitolo generale (1969-70) venne eletto Don Olimpio Giampedraglia, riconfermato in quello successivo (1976) E' morto in carica nel 1980. Suo impegno fu l'attuazione delle istanze conciliari e delle decisioni capitolari, soprattutto del capitolo generale speciale (1969-70). A lui si deve la promulgazione di nuovi testi di Costituzioni e regolamenti, l' istituzione delle province religiose, il trasferimento della casa generalizia e dello studentato teologico a Roma, la specializzazione dei confratelli e di opere e l'avvio di nuove attività (Palencia, in Spagna; Nazareth, in Palestina). 

 

Cenni Biografici

Nato a S. Cassiano (SO), il 14 marzo 1915

Entrato a Fara Novarese (NO), il 14 ottobre 1925

Professo a Fara Novarese (NO), il 14 settembre 1932

Sacerdote a Como, il 24 settembre 1938

Defunto a Roma, il 5 dicembre 1980


 

Don Olimpio arrivò a Fara che aveva dieci anni, ed aveva compiuto «gli studi elementari di grado inferiore», cioè la terza classe. Allora, nei piccoli centri, non c'era più di tanto; ma erano terze impegnative, dove il leggere e il far di conto avevano una parte assai importante e formativa. Era orfano di mamma da quando non aveva che un anno; il padre gli era morto che ne aveva uno e mezzo. Le persone care, alle quali far riferimento, erano la nonna, una zia e il fratello Lorenzo Attilio, maggiore di tre anni.  Sui banchi della scuola, l'aveva curato, con particolare attenzione, la sua maestra Maria Trussoni e s'era interessato con insistenza il parroco don Antonio Zubiani a farlo accettare: le buone doti, che già spiccavano, potevano sbocciare in una valida vocazione. Aveva tutta l'aria del piccolo montanaro, coi calzoni a mezza gamba; la semplicità s'accoppiava alla vivacità e soprattutto alla bontà. Inserito subito nei corsi ginnasiali, tenne il passo con gli altri che pur disponevano d'una miglior preparazione di base; ci volle qualche anno a mettere in evidenza le sue doti e raggiungere quel profitto che l'avrebbe posto al disopra di tutti. E' che la vivace intelligenza andava di pari passo con l'impegno costante.

Nel 1930 entrò in noviziato, allora sempre a Fara. Non rappresentò un normale avanzamento di tappa, segnò un punto miliare. Fu chiara a tutti la decisione con cui affrontava questo periodo di formazione intensa: esemplare nell'osservanza delle Regole, anche le più minute, quelle in cui i novizi scantonano più facilmente, per esempio quella del silenzio. Con una crescita rapida, arrivò alla professione, confermando il proposito deciso di «volermi dedicare al Sacerdozio nello stesso stato religioso che abbraccio». Per gli studi liceali e filosofici frequentò, sempre brillantemente, il seminario vescovile di Como, con residenza in Casa‑Madre. Poi scese a Roma, a frequentarvi, all'Università Urbaniana di Propaganda Fide, i corsi teologici. Il tempo disponibile, quello che avrebbe potuto riservare al giusto sollievo, lo dedicò ai buoni‑figli dell'annesso ricovero che l'ospitava. Arrivò al sacerdozio che aveva frequentato l'università per tre anni, con una duplice dispensa pontificia: sei mesi d'anticipo sull'età canonica e per non aver ancora iniziato il quarto anno di teologia. Per gli studi si era già meritata una medaglia d'argento e una d'oro, che offrirà alla Madonna, quale filiale e riconoscente omaggio. Era ammirevole infatti la serietà con cui si applicava: in cinque anni preparò la licenza e la laurea in teologia, si iscrisse alla facoltà di diritto canonico all'Università Gregoriana e vi conseguì licenza e laurea. Il risultato: Summa cum laude.

Intanto i superiori cominciavano ad affidargli alcuni incarichi: prefetto degli studenti e aiutante del procuratore generale nel 1943; due anni dopo, quelli di secondo consigliere della casa, rettore del seminario minore e vice‑postulatore generale. In particolare, il Superiore generale gli affidava l'animazione della grande comunità, raccomandandogli di supplire alle negligenze e di togliere gli inconvenienti. Non era trascorso un anno, che lo richiamarono al Nord, affidandogli la direzione della casa di Barza e la formazione dei numerosi chierici novizi e professi. Per essere loro maestro non aveva l'età canonica: gli chiesero ed ottennero la necessaria dispensa. Quattro grossi quaderni, fortunatamente conservati, di conferenze e prediche ai chierici, mettono in evidenza la chiarezza della sua linea, nello sforzo di formare buoni religiosi guanelliani. A chi mancava di decisione, consigliava l'altra strada.

  • Tu ne dimetti troppi —, gli fece notare un confratello.
  • Non ho mai mandato via nessuno — fu la risposta serena —; si sono ritirati da soli.

Lui li aveva aiutati col suo saggio consiglio nella scelta. Perché era veramente uomo di consiglio, fornito di acume, di prudenza e soprattutto dello Spirito di Dio. Lo sapevano bene i confratelli che, sei anni dopo, nell'ottavo Capitolo generale della Congregazione, lo elessero a far parte del Consiglio generale, con l'incarico di segretario. Fu logico il suo trasferimento a Como, per sua decisione, pur contro il parere del Superiore generale. Il lavoro che l'attendeva era tanto: guida al settore formativo della Congregazione e delle Associazioni Ex‑allievi, la compilazione del «Charitas»; inoltre assistenza a molte comunità femminili guanelliane e non, giornate vocazionali e predicazione.

Il Capitolo successivo, il nono, lo rielesse con gli stessi incarichi. Nel decimo invece, celebrato a Barza tra il 20 e il 23 luglio 1964, non venne rieletto. Ebbe la nomina a procuratore generale, ma credette bene di declinarla. I disegni di Dio si manifestarono in seguito: per il governo della Congregazione, gli sarebbe occorso un più immediato contatto con le attività e le realtà dell'Opera. Al momento ne restò turbato, vedendovi una specie di rifiuto della sua persona. Ma vinse la sua virtù e si rasserenò. Restò a Como fino al novembre, in ossequio all'orientamento del Capitolo di non procedere al trasferimento dei confratelli se non per casi urgenti e veramente indispensabili, fino alla Beatificazione del Fondatore. Questa era imminente e per lui fu una grande gioia potervi partecipare: era il padre del suo spirito e della sua famiglia religiosa, era il convalligiano. L'anno 1965, voluto come anno guanelliano, vide prolungarsi le celebrazioni: l'urna, con la salma del nuovo Beato, passò venerata e festeggiata per tutti i paesi della diocesi. Don Olimpio fu uno degli accompagnatori più instancabili e dei predicatori più richiesti, per illustrarne la vita, la spiritualità, la carità. Intanto, appena il nuovo Consiglio poté prendere il suo ritmo normale, egli si vide preposto superiore ad Anzano, nella comunità del seminario minore. L'anno dopo gli affidarono anche l'economia.     Curò i giovani aspiranti, animò soprattutto la comunità religiosa, allora di quindici confratelli, sforzandosi d'imprimerle un tono di unità e di gioiosità. Lo stesso ripeté a Milano, dove fu inviato per il triennio seguente. Pregò d'affidare ad altri la cura parrocchiale, che gli era stata congiuntamente offerta; molti altri problemi lo assorbivano circa le due Congregazioni guanelliane, la maschile e la femminile, della quale, nel frattempo, era stato nominato consultore. Lasciò gran parte del lavoro educativo ai suoi diretti collaboratori. Doveva attendere alla preparazione del Capitolo speciale: e le commissioni del governo e della formazione gli richiedevano studio personale e consultazione di esperti. Il Capitolo si aprì il 7 ottobre 1969 e si svolse in due sessioni, la prima a Gazzada (Villa Cagnola) e la seconda a Roma (Collegio Spagnolo). Don Olimpio vi fu eletto moderatore — era la prima volta che entrava in azione questa figura — e ne uscì Superiore generale.

Esula da queste note ricordare la sua opera nell'espletamento del mandato.

Ricorderemo:

  • il desiderio della fedeltà, ricevuto come consegna dalla bocca del Papa;   — il contatto coi confratelli nelle case d'Italia e dell'estero: a questi dedicò complessivamente ben 241 giorni;
  • l'attuazione delle delibere capitolari, quali il trasferimento della casa generalizia e poi del seminario teologico a Roma;
  • la costituzione delle Provincie; la stesura, l'approvazione e la pubblicazione dei nuovi testi costituzionali;
  • i primi capitoli provinciali, la prima consulta, la visita canonica. 

Il successivo Capitolo generale, che si svolse ad Ariccia, dal 7 luglio al 3 agosto 1976, lo rielesse con una votazione plebiscitaria, al primo scrutinio. Accettò, in ossequio alla volontà di Dio: Fiat Voluntas Tua, scrisse sul diario delle Messe. Riprese il suo «servizio d'amore», con lo stesso stile e lo stesso ritmo. Ma cominciarono presto, l'anno seguente, i malanni: una calcolosi renale, che si risolse solo con l'intervento chirurgico; un penoso glaucoma all'occhio sinistro, anche questo curato con un lungo periodo di terapia in ospedale. Poi, l'ultimo grande male, il tumore al rene, già in metastasi, che lo inchioderà al letto, crocifisso col suo Signore. Fu diagnosticato in Argentina e si manifestò con affaticamento, precoce invecchiamento, forte emorragia. Rientrato a Roma, fu necessario il ricovero d'urgenza, si chiuse al Policlinico Gemelli, dove, dopo cinque mesi di dolori strazianti, con due inutili operazioni, giunse la serena morte. Se sempre era apparsa, come luce riflessa del suo spirito, la grande virtù, questa, nella malattia e nella morte, brillò in tutto il suo fulgore. La serenità mai persa, l'accettazione eroica del dolore, l'abbandono alla volontà del Padre dissero l'alto grado di perfezione raggiunto. Desiderò chiudere nella sua casa, a ringraziare della vocazione guanelliana, povero fra i poveri, tanto amati e amorevolmente serviti. Fra le ultime raccomandazioni: «Il Signore ha troppa fame ancora oggi; siate generosi con i poveri, con gli affamati del Terzo Mondo. Abbiamo troppi soldi..., date..., date!». C'è qui l'eco del Vangelo e dell'insegnamento del Fondatore: i grandi maestri della sua vita, sui quali aveva modellato la sua eccezionale figura di sacerdote e di guanelliano.

 

L'assemblea del XX Capitolo Generale dei Servi della Carità dell'Opera don Guanella riunita a Barza d'Ispra ha eletto Don Umberto Brugnoni, come nuovo Superiore Generale che guiderà la Congregazione dei Guanelliani nel prossimo sessennio 2018-2024.

Don Umberto è stato Vicario Parrocchiale nella Comunità di Messina, Direttore del Seminario Minore a Roma, Superiore locale ad Alberobello (Italia), Superiore Provinciale nella Provincia Romana San Giuseppe, Vicario Generale, nonché dal 2015 Rettore del Seminario Teologico Internazionale Mons. Bacciarini.

 

Superiore dal 1964 - 1970

Don Armando Budino, nel 1958 si preparava a ricevere responsabilità più pesanti, infatti venne scelto come Delegato del Superiore Generale nelle nazioni latino-americane dell'Argentina, Brasile, Paraguay e Cile. Dove  trascorse un sessennio. Nel 1964, nel X Capitolo generale venne eletto Superiore Generale della Congregazione. Negli anni del suo intenso servizio ebbe la gioia di vedere beatificato il Fondatore da Paolo VI. Si sforzò di incrementare l'Opera in Italia e all'estero, di dare un grande impulso all'aggiornamento di persone e di strutture volute dal Concilio Vaticano II, di guidare il primo pellegrinaggio guanelliano in Terra Santa.  Le lettere inviate ai confratelli durante questo periodo rivelano chiaramenti i sentimenti delicati e appassionati insieme, con cui egli ha diretto la Congregazione. 

 

Cenni Biografici

Nato a Pavia d’Udine (UD), il 27 maggio 1913

Entrato a Fara Novarese, Studentato S. Gerolamo, il 30 settembre 1934

Noviziato a Barza d’Ispra, Casa don Guanella, dal 12 settembre 1935

Prima Professione a Barza d’Ispra, il 12 settembre 1937

Professione perpetua a Ferentino (FR), Casa Divina Provvidenza, il 12 settembre 1940

Sacerdote a Novara, Cattedrale S. Gaudenzio, il 13 giugno 1943

Consacrato da Sua Ecc. Mons. Giuseppe Stoppa Superiore generale dei S.d.C. dal luglio 1964 al luglio 1970

Deceduto a Barza d’Ispra, Casa di Riposo, il 24 settembre 1993

Sepolto nella cappella dei confratelli nel Cimitero di Ispra (VA)


 

Anima candida in vita che non sapeva celare nulla, don Armando lo è stato di più in morte con tale forza dirompente d’aprire alla comprensione non nuova il vissuto di un sacerdote tutto di Dio. È il testamento spirituale, custodito nell’archivio dei confratelli della Congregazione, elaborato non per esaltare meriti e virtù ma solo per cantare un magnificat all’Altissimo che l’ha ricolmato di doni. La sua lettura attenta – in quella scrittura tutto voli e larghi spazi rivelatrice di un’anima semplice – nelle molteplici sfaccettature, rivela innanzitutto che don Armando ha posseduto una personalità adamantina impastata di Dio nelle intenzioni e nelle opere e che l’amore è stato la fiamma che lo ha divorato. Così egli scrive: «Ho creduto in Lui, L’ho amato, L’ho fatto amare... Passare tanti anni testimoniando solo Dio, la sua giustizia, il suo amore è realmente cosa divina... Avrei voluto che tutta la terra fosse un unico tempio, per far salire sino al cielo il canto d’amore di tutte le creature». Si avvertiva del resto questo movimento di tutto il suo essere verso Dio nel semplice contatto con Lui. Era come se in lui il corpo facesse unità con la sua anima, la volontà con l’intelligenza. S’intuiva come se in lui ci fosse un solo desiderio: amare Dio. Solo Dio. Tanto da non poter far a meno di augurarlo anche agli altri: «Il Signore ti ama, sai! Fatti santo!». Certo, tutto gli veniva da Dio. È lui per primo a riconoscere che tutto gli era stato donato: «Grazie, Signore, di tutti i favori a me elargiti; non li conto più; sono innumerevoli».

La vita innanzi tutto: era nato a Pavia d’Udine in una «Famiglia cristiana, governata da una mamma santa». Ha uno struggente ricordo del padre, caduto sul Monte S. Michele (GO) nel 1917, quand’egli era piccino di quattro anni. Ha venerazione per la madre, angelo tutelare della sua vita, che lo educò con ogni premura e lo offrì con riconoscenza al Signore, quando manifestò il desiderio di avviarsi al sacerdozio. «Sono stato ammesso alla Prima Comunione a 9 anni»: quel dono accende in lui la gran fiamma della sua giovinezza e dell’età adulta, l’Eucaristia, vista «come fonte di luce, di conforto e di speranza infinita. Ho creduto nella sua presenza. Mi sono affidato a Gesù Eucaristia con certezza evidente e, nella morsa tremenda delle innumerevoli prove, ho gridato a lui: “Signore, che io creda!”: la luce e il conforto immancabilmente arrivavano». C’è poi «il dono della vocazione sacerdotale e religiosa». Entrò prima nel seminario d’Udine. Vi frequentò i primi quattro anni di ginnasio. Poi venne nell’Opera Don Guanella, dove percorse con diligenza gli studi ecclesiastici, attendendo contemporaneamente, con evidente spirito di sacrificio, all’assistenza della fanciullezza bisognosa negli istituti guanelliani di S. Luigi in Albizzate (VA), Beato Tomitano di Vellai di Feltre (BL), Casa Divina Provvidenza di Ferentino (FR). Emise la prima Professione nel 1937, quella perpetua nel 1940. Fu ordinato sacerdote nel 1943. Nel caratterizzare il periodo formativo, ha un solo accenno: «Ho cercato di fare quanto era possibile in me... avrei voluto essere solo di buon esempio». Molto di più invece egli afferma del suo sacerdozio, della vita religiosa, le cui primizie furono dedicate quasi esclusivamente alla formazione dei chierici guanelliani, prima come educatore, poi come vice-maestro e infine come maestro dei novizi: 11 lunghi anni tra lo Studentato S. Gerolamo di Fara Novarese e la Casa don Guanella di Barza, allora sede del Noviziato e ricca di presenze giovanili, cui bisognava dedicarsi con generosità diuturna, senza manifestare stanchezze, sofferenze immancabili.

Molti dei confratelli l’ebbero infaticabile educatore e maestro dello spirito, spronati alla virtù dalle brevi frasi di cui si serviva per entrare nel loro giovane cuore: «Siamo uomini fatti per Dio...». «Amalo, amalo con gioia», perché: «Il sacerdote di fede è sempre un’anima felice... Mette luce dove c’è tenebra, mette pace dove c’è guerra. È abitualmente con il sorriso, anche se croci e sofferenze lo tormentano. Sereno, generoso, equilibrato, cordiale... Formiamo un blocco di ottimismo... Brilli negli occhi di tutti la gioia e resti sempre nelle nostre case». E ancora quasi puntualmente ogni giorno la raccomandazione: «Amate la Chiesa, il Papa, la Congregazione». Un magistero che trovava corrispondenza nella sua vita e che non poteva non emergere dal suo testamento spirituale: «Nella Congregazione ho vissuto con gioia, anche se ho tanto sofferto. Ho amato la Chiesa e la Congregazione. Non posso dividere queste due grandi famiglie. Per me hanno formato un unico amore. Ho amato il Papa perché in lui ho visto Cristo. Amarlo e seguire le sue direttive è obbligo, è luce, è gioia. Ho amato la Madonna e avrei voluto che tutti comprendessero la grandezza e la bellezza di questo fiore, il più bello della terra». Don Armando, scelto dallo Spirito Santo per grandi impegni nella Congregazione, era giunto al traguardo delle responsabilità maggiori. Nel 1958, egli è scelto ed inviato dai Superiori Maggiori, che gli riconoscono ricchezza di doni naturali e soprannaturali, come Delegato del Superiore generale nelle nazioni latino-americane dell’Argentina, Brasile, Paraguay e Cile. Vi trascorse un sessennio. Nel 1964, il buon carattere, la qualità della vita e una preparazione vasta, resa ancor più concreta dall’esperienza tra i giovani novizi in Italia e i confratelli nell’America Latina, furono gli elementi che orientarono i religiosi guanelliani delegati al X Capitolo generale ad affidargli le redini dell’intera Congregazione. Negli anni del suo intenso servizio, ebbe la gioia di vedere beatificato da Paolo VI il Fondatore, di incrementare l’Opera in Italia e all’estero, di dare un grande impulso all’aggiornamento di persone e di strutture volute dal Concilio Vaticano II, di guidare il primo pellegrinaggio guanelliano in Terra Santa. Sono solo alcune delle sue attuazioni in campo direttivo, perché il don Armando di sempre si fa valido animatore, comunicatore convincente per i confratelli fedeli in momenti di pesanti difficoltà per la vita morale e disciplinare della Congregazione. Lo testimonia nel Diario Spirituale: «Ho amato i confratelli e tutte le persone che ho conosciuto sulla terra: ho visto sempre in ciascuno il riflesso di Dio e l’anima immortale. Non potevo non amare tutti; ma in Dio e per Dio». Sono, comunque, le lettere inviate ai confratelli, durante il sessennio, che rivelano i sentimenti delicati e appassionati insieme, con cui egli dirige la Congregazione. C’è pressante l’invito alla generosità, vale a dire a generare con dedizione il bene in noi e intorno a noi, secondo il significato etimologico del termine. Sembra essere in questo, per lui, il miglior ritratto del guanelliano: «Più alimentiamo la spiritualità, scrive, più accresciamo la forza di bene nelle anime. Conservi sempre il Servo della Carità lo spirito di preghiera, d’umiltà, di sacrificio, di carità. Sia sempre amico, confidente, educatore d’anime... Sarà soprattutto luce che risplende nelle tenebre; sarà fuoco che tutti accenderà dell’amore di Cristo». Una terza data va, infine, qui ricordata, perché fa parte ancora del suo ministero attivo e pregno di responsabilità: la presa di possesso, il 22 settembre 1970, festa di Cristo Re, della Chiesa di S. Gaetano di Milano come parroco. Mentre tutto intorno a lui si colora di festa e lo s’accoglie al grido prorompente di gioia «Benedetto colui che viene nel nome del Signore », egli annota: «Nel giorno del mio ingresso quale parroco di S. Gaetano, in semplicità di cuore, in povertà di spirito, in generosità di propositi vengo a consacrare me stesso per il bene e la salvezza di questa porzione di popolo di Dio come fratello, guida e pastore». Chi tra i parrocchiani è vissuto accanto a lui può testimoniare quanto egli sia stato fedele a questo programma: «Consacro me stesso»: è la parola di Gesù ai discepoli nell’ultima cena. Era ed è un gesto sacrificale, è l’offerta della vita senza calcoli né rimpianti fino al sacrificio. Infatti, in 14 anni, egli la consumò tra il confessionale, la predicazione, l’attenzione agli ultimi, ai sofferenti, a quelle anime che attratte dalla sua radicalità di vita si vollero costituire in gruppo di preghiera e d’apostolato, intorno a lui, e si prefissero di vivere intensamente, in pienezza la vita cristiana. 

Nel 1984, torna a Barza. Qui nel nascondimento – almeno apparente – si pone a disposizione di tutti e diventa il consolatore di chi è afflitto, angustiato, il consigliere d’anime, un richiamo di speranza e di vita. Per lui è una preparazione – come spesso diceva – alla morte, ma per gli altri che a lui ricorrevano era un attingere alla vita zampillante dello spirito. Sorella morte bussa alla porta di casa; don Armando l’intuisce quando scrive: «La mia vita è stata un soffio, è volata come un turbine, è finita in un momento. Confratelli, non perdete tempo! Ditelo a tutti di non perdere tempo. Un’ora passata con Dio o nella testimonianza del bene è cosa meravigliosa. Passare così tanti anni testimoniando solo Dio, la sua giustizia, il suo amore è realmente cosa divina. Fate così, fate così, perché nel mondo ritorni il bene, splenda la luce e ci sia la pace. Dio, Trinità che adoro, pietà e misericordia di me. Vergine Santissima, aiutami nei momenti estremi e, perché non senta il tremendo timore del giusto giudizio, portami Tu che sei stata sempre madre amorosa e benigna. Angelo mio custode, grazie per aver compiuto tanto magnificamente la tua divina missione con me. Ti ricompensi Dio con i suoi doni eterni. Grazie a tutti per i vostri esempi, per la vostra fede, per la vostra carità. Se per la misericordia di Dio sarò salvo, non starò in pace in Paradiso, ma vorrò ricompensare tutti, tutti, del bene che qui ho ricevuto da voi. In quale maniera? Ottenendovi tanta luce, tanto conforto, sicurezza e tanto bene. Per tutti. Avvenuta la mia morte non comunicate la notizia a nessuno prima dei funerali. Di nulla preoccupatevi, di nulla. Il funerale sia modesto e semplice. E altro che dire? fate festa, non lutto. Perché? Perché ho terminato di offendere Dio e voi. Mi sembra giusto che si goda e si faccia festa dei presenti nella Casa della mia morte. Scusatemi e perdonate tanto disturbo. Ancora una volta però vi ripeto: pregate per me. Vi ricambierò, spero, presto con la grazia di Dio. Confratelli, fratelli nella Fede, parenti, la vita è breve. Ma non sciupatela; vivete nel segno di Dio, ma fate in fretta e fate sempre bene. Le prove, le umiliazioni, le sofferenze passano, ma il bene compiuto resta per la vita eterna. Coraggio! Ancora qualche anno e c’incontreremo di nuovo nella vita che non verrà più meno in eterno. Fate festa, fate festa! Gloria alla Trinità e salvezza a tutti».

Superiore dal 1993 - 2006

Nel capitolo del 1993 succedette a don Pietro Pasquali, don Nino Minetti, riconfermato nel XVII Capitolo generale del 2000. Oltre a dare impulso al consolidamento delle aperture missionarie già in corso, ha aggiunto fondazioni nel Ghana, nel Nuovo Congo, nel Guatemala. Ha introdotto nuovi organismi nella geografia dell’Istituto (Delegazione Nostra Signora di Guadalupe, che comprende le comunità di Messico, Guatemala e Colombia, la Delegazione di Spagna e  la Delegazione Indiana).

Si è trovato a fronteggiare i molti problemi relativi a dialogo con le diverse culture contemporanee, all'esiguo numero di vocazioni sacerdotali riscontrato in particolare nel secolo presente. Si è confrontato con i delicatissimi compiti della formazione permanente, dei nuovi seminari inseriti nei luoghi delle missioni, del ridimensionamento delle opere per promuovere un servizio alla persona sempre  più qualificato e puntuale.

 

 

Superiore dal 1958 - 1964 

Don Carlo De Ambroggi, fu sempre a servizio della Congregazione. Non solo in Italia e in Spagna, ma per 12 anni anche in America Latina.

Eletto Superiore nel IX Capitolo Generale del 1958, si prefissò, soprattutto, di essere guida spirituale della Congregazione. Non trascurò l'espansione dell'Opera; con lui, infatti, inizia la presenza dei Servi della Carità negli Stati Uniti d'America; ma fu sua prima preoccupazione "il rinnovamento o meglio il perfezionamento" della vita spirituale e della formazione religiosa dei confratelli.  Basta scorrere i titoli delle lettere da lui pubblicate sul Charitas: la povertà, la carità fraterna, l'opera delle opere, le vocazioni, la castità, i nostri doveri verso la Congregazione, il testamento del Padre, oboedientia et pax, patire, siamo figli di santi, la regola, la Divina Provvidenza...

 

Cenni Biografici

Nato a Laveno Mombello (VA), il 23 novembre 1907

Entrato a Fara Novarese, Studentato S. Gerolamo, l’11 ottobre 1920

Noviziato a Fara Novarese, Studentato S. Gerolamo, il 21 luglio 1925

Prima Professione a Fara Novarese, il 12 luglio 1927

Professione perpetua a Fara Novarese, il 12 settembre 1930

Sacerdote a Novara, Cattedrale S. Gaudenzio, il 28 giugno 1931

Consacrato da Sua Ecc. Mons. Giuseppe Castelli Superiore generale dei S.d.C. dal luglio 1958 al luglio 1964

Deceduto a Roma, Ospedale Gemelli, il 20 ottobre 1988

Sepolto nella tomba dei confratelli nel Cimitero di Como


 

Egli fu religioso e sacerdote d’intensa preghiera, di profonda vita interiore che traspariva dal contegno abitualmente raccolto e riservato. Possedeva un animo retto nelle intenzioni e nelle opere, per questo, anche quando si divergeva dalle sue convinzioni, era necessario ammirarne e rispettarne la fedeltà alla verità cui teneva in modo assoluto.

La laboriosità fu una delle virtù eccelse della sua vita dagli anni della giovinezza alla tarda età. Visse col massimo dell’impegno personale tutte le responsabilità che gli furono affidate dai superiori: come quella di superiore locale in numerose case, maestro dei novizi, guida delle comunità dell’America Latina e, alla soglia del tramonto, postulatore delle cause di beatificazione dell’allora Venerabile Suor Chiara Bosatta e di Mons. Aurelio Bacciarini.

Per riassumere, in brevi cenni, i due tratti essenziali che caratterizzarono la sua vita di guanelliano, è ovvio rimarcare:

- la pratica dell’ascesi robusta che don Carlo aveva stabilito come dote essenziale della sua vita di religioso nello spirito di don Guanella che al pregare univa il patire;

- il trasporto filiale agli insegnamenti del Fondatore e alla Congregazione, che traspariva nella memoria viva della nostra storia, che cercò di raccontare in molti modi, e nella custodia della nostra genuina tradizione.

Nell’agosto del 1920, l’allora parroco di Mombello, grosso borgo sulla riva lombarda del Lago Maggiore, presentava al superiore del seminario di Fara Novarese Carlo De Ambroggi, non ancora tredicenne. Scriveva: «il giovinetto mio parrocchiano De Ambroggi Carlo che viene costì è ottimo sotto ogni rapporto». In particolare attestava di lui «la bontà, la pietà e l’intelligenza» e affermava d’aver riscontrato in lui «i migliori segni di vocazione ecclesiastica» e si diceva sicuro «di una splendida riuscita».

 A 68 anni di distanza, si deve asserire che quelle previsioni hanno avuto il loro adempimento: il buon seme ha dato i suoi frutti. Non senza un doloroso e prolungato lavoro d’ascesi, indispensabile per accogliere gli inviti misteriosi della grazia divina e per raggiungere una fede pienamente matura. La via migliore che S. Paolo indica al cristiano e che don Guanella ha percorso fino all’eroismo è la carità. Quanti ostacoli essa deve superare per potersi radicare in noi e trasformare la vita; spezzare le barriere dell’egoismo e portare la persona al pieno dono di sé a Dio e al prossimo. Don Carlo ha impregnato il suo sacerdozio dell’ascesi pura dell’amore nel modo più genuino. Egli scandagliava quotidianamente se stesso alla ricerca di quanto lo teneva lontano dal suo Signore, ben conoscendo la propria fragilità. Amava purificare i pensieri e i palpiti più reconditi del cuore per allontanare le banalità del vissuto che il male celava nel dono non sempre integro dell’agire e donare. Con energia contrastava le suggestioni del male; esigente e austero con se stesso prima che con gli altri, deciso ad evitare ogni compromesso, vigile nel conservare lo spirito di donazione quotidiana per i poveri, i veri signori della sua vita.

C’è un secondo tratto che ha qualificato il proprium di don Carlo: l’amore al Fondatore e alla Congregazione. Lo assorbì negli anni del seminario di Fara Novarese, sotto la guida di don Leonardo Mazzucchi, che lo conquistò a don Guanella e fu per lui modello d’attaccamento al Fondatore e di dedizione alla Congregazione. Conosceva di don Guanella la vita e le opere; ne citava a memoria i brani più indicativi; si sforzava di viverne lo spirito e di trasmetterne integro il messaggio, servendosi della parola e degli scritti. Con trepidazione ne seguì l’iter della causa di beatificazione e proprio nel sessennio del suo superiorato (1958-64) n’accolse con gioia l’annunzio della glorificazione (1964).

In una lettera del 13 maggio 1962, informava i confratelli che la Chiesa ne aveva riconosciuto l’eroicità delle virtù. Commentava: «Siamo figli di Santi! Questo è il titolo più onorifico e al tempo stesso più impegnativo per noi. Se siamo figli di santi, la nobiltà ci obbliga ad emularne gli esempi, ad onorarne la memoria con opere egregie, degne della nostra origine».

Altrove ricordava: «Carissimi confratelli, la gloria più vera, più auspicata dallo stesso Padre Fondatore, più feconda di bene e più duratura dev’essere costituita dalla santità della vita, dalla fedeltà al suo programma, dalla perennità del suo spirito in noi suoi Servi della Carità».

Don Carlo volle sempre mantenersi fedele alla sua vocazione guanelliana, in una sincera ricerca della santità, come da superiore inculcava ai confratelli: fu a servizio viscerale della Congregazione, non solo in Italia e in Spagna, ma per 12 anni nell’America Latina. Eletto Superiore generale, si prefisse soprattutto d’essere guida spirituale della Congregazione. Non trascurò l’espansione dell’Opera, che s’insediò negli Stati Uniti d’America. Voleva che la Congregazione vivesse «un rinnovamento o meglio il perfezionamento» della vita spirituale e della formazione religiosa (Charitas 121, 2). I titoli delle lettere da lui pubblicate sul Charitas ne rivelano l’evidente preoccupazione primaria:

  • povertà di fatti e non di parole, carità fraterna nelle comunità tra i religiosi e all’esterno con i poveri;
  • le vocazioni futuro dell’Opera;
  • la castità sollecitudine di combattimento contro il male;
  • doveri verso la Congregazione; il testamento del Padre; 
  • oboedientia et pax; patire; figli di Santi; la regola; la Divina Provvidenza.

Questo è stato l’impegno più decisivo del suo governo. Don Carlo amò la Congregazione con lo stesso slancio con cui amò don Guanella: per lui era la creatura più amata, via sicura alla santità e testimonianza genuina del Vangelo. L’amò anche quando, con rammarico, constatava che l’impegno alla santità da parte dei confratelli era neghittoso e senza entusiasmo rimarcato da scarsità di corrispondenza, inadeguatezze nel vivere l’ansia apostolica e caritativa del Fondatore. Amare la Congregazione significò per lui: onorarla, conservarne immutato lo spirito, mantenerne inalterato lo scopo, promuoverne lo sviluppo (Charitas 130). Prossimo alla morte, don Carlo per tre volte alzò le braccia, protendendole verso l’alto. Gesto d’offerta?... Risposta ad una chiamata?... Incontro con una persona amica?... Nella serenità di don Carlo di fronte alla morte, trionfa la certezza che per lui in quel momento s’è compiuta la parola di Gesù: «Venite, benedetti... ricevete il regno...». «Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te!».

Superiore dal 1981-1993

Nel XIII capitolo generale (1981) gli successe nella guida della Congregazione don Pietro Pasquali, confermato nel 1987. 

Davanti al suo impegno si aprirono soprattutto due campi di azione: portare a termine l’aggiornamento dei testi normativi e sostenere la vitalità delle fondazioni missionarie. 

Le Costituzioni, infatti, furono perfezionate nel capitolo generale straordinario, celebrato in due sessioni nel 1984-85, poi presentate alla S. Sede e da questa definitivamente approvate il 22 marzo 1986. 

Sul fronte delle missioni si ebbe un periodo di grande coraggio apostolico: nel dicembre 1983 si aprì la prima missione nel Messico, nel 1986 si avviarono i contatti con l’India, nel 1988 con la Polonia, l’anno successivo con le Filippine e con la Nigeria.

 

 

Superiore dal 1946 - 1958

Don Luigi Alippi, venne eletto Superiore Generale nel VII capitolo generale (1946) succedendo a don Leonardo Mazzucchi che per ben ventidue anni aveva retto con singolare saggezza, mano ferma e fedeltà assoluta allo spirito guanelliano. Don Alippi accettò con umiltà e semplicità quel servizio di suprema autorità nell'Istituto, confidando nella Provvidenza e nella protezione del santo Fondatore. Ben presto ebbe modo di rivelare la sua capacità e il suo prudente dinamismo. Visitate le Case d'Italia e della Svizzera, si preoccupò delle Opere dell'Argentina e Paraguay cercando di svilluparle e di estendere l'Opera ad altre nazioni dell'America Latina. Infatti, nel 1947-1948 Don Alippi intraprendeva il  suo primo viaggio oltre l'oceano per incontrare e incoraggiare quei confratelli, visitare gli Istituti e le parrocchie funzionanti da anni, avviare le Case di recente fondazione con la prospettiva di nuove, e affiancarvi scuole apostoliche per le vocazioni. Fu confermato di nuovo nell'VIII (1952). Nei dodici anni di governo anche in Italia si moltiplicarono gli Istituti guanelliani e i vecchi si rinnovarno e ampliarono.

Cenni Biografici

Nato a Linzanico Abbadia Lariana (CO),il 31 ottobre 1902

Entrato a Como, Casa Divina Provvidenza, il 23 dicembre 1914

Noviziato ad Albizzate, Istituto S. Luigi, dal 20 settembre 1921

Prima Professione a Fara Novarese, il 30 settembre 1924

Professione perpetua a Fara Novarese, il 18 settembre 1928

Sacerdote a Como, Basilica Cattedrale, il 14 ottobre 1928

Consacrato da Sua Ecc. Mons. Adolfo Pagani Superiore generale dal 24 luglio 1946 al 24 luglio 1958

Deceduto a Como, Casa di Riposo, il 13 maggio 1985

Sepolto nella tomba dei confratelli nel Cimitero di Como

 

 


 

Nel primo pomeriggio del 13 maggio, mese dei fiori, don Luigi Alippi, emerito Superiore generale dei Servi della Carità, terzo successore del Beato Luigi Guanella, lasciava la dimora terrena per riunirsi con i confratelli che lo avevano preceduto nel segno della fede e dormivano il sonno della pace. Aveva raggiunto l’età dei «più robusti», secondo il salmista e solo pochi mesi di malattia lo hanno preparato al gran passo nella Casa della Divina Provvidenza di Como. I funerali, nel Santuario del Sacro Cuore, sono stati celebrati dall’allora Superiore generale don Pietro Pasquali attorniato da un’ottantina di sacerdoti con la partecipazione unanime di confratelli e di consorelle delle due Congregazioni, di collaboratori ed amici dell’Opera. Il rito, pur se ovattato della mestizia dei tempi dell’addio, ha confortato i figli presenti con la certezza che il Divino Redentore, nello spirito rimarcato dalla liturgia pasquale di quei giorni, renderà partecipe della gloria del cielo il confratello che in vita ha creduto e sperato in Lui.

Dal paese nativo di Linzanico di Badia Lariana Luigino, accompagnato dallo zio don Salvatore, uno dei primi e più fedeli sacerdoti di don Guanella, approdava alla Casa Divina Provvidenza di Como, curioso di poter conoscere quel prete, don Guanella, di cui aveva tanto sentito parlare in casa.

Ebbe subito il privilegio di conoscere il santo Fondatore, riceverne la paterna benedizione, ascoltarne la parola ispirata ed anche, poco dopo, assaporarne l’amarezza della malattia e piangerne sconsolato la dolorosa morte. Luigino era presente ai funerali del suo prete amato: ne ricorderà il plebiscitario tributo, quasi un trionfo, che il santo ricevette in tutte le strade di Como, attraversate dal feretro in cammino verso il Duomo per il rito di funerazione. Pur se ancora piccolo d’età, la «cara immagine paterna» gli s’impresse nell’animo e un amore filiale per lui l’accompagnerà per l’intera vita.

Luigi Alippi quattordicenne, con un gruppo di ventuno aspiranti dei corsi ginnasiali, lasciava Como, il 29 luglio 1916, per lo Studentato dei Servi della Carità, l’Istituto S. Gerolamo di Fara Novarese, da tutti salutato come primo dono del Beato Fondatore morto da solo un anno. Erano con loro don Aurelio Bacciarini, nuovo Superiore generale e futuro Vescovo di Lugano, e don Leonardo Mazzucchi, che aveva l’incarico, come primo rettore, d’organizzare giuridicamente e spiritualmente il seminario, oltre ad essere il responsabile degli studi degli alunni. In quell’ambiente, che sorgeva su di un’amena collina, il chierico Alippi, rivestito dell’abito talare, come allora si usava, dal 1916 al 1921, completò i corsi umanistici, distribuendo il tempo fra la preghiera, lo studio e il lavoro nel lussureggiante vigneto, sotto il paterno e forte governo di don Mazzucchi, la soave ed illuminata direzione spirituale di don Ramiro Lucca, la fraterna vigilanza dell’assistente, il chierico Michele Bacciarini. Da Fara Novarese passò all’Istituto S. Luigi d’Albizzate per il Noviziato e per la prima Professione. Compiuto il servizio militare, secondo le leggi allora in essere che non esoneravano i sacerdoti dall’obbligo della leva, irrobustito nello spirito da un’esperienza amara e dolorosa per la sua vita spirituale, a contatto con camerati spesso volgari e bestemmiatori, tornò in comunità rafforzato nella volontà di seguire la strada intrapresa. Nella Casa Madre di Como fu educatore degli orfani e degli abbandonati con passione e dedizione encomiabile, nonostante l’impegno dello studio della teologia nel Seminario diocesano. Fu sacerdote consacrato da Sua Ecc. Mons. Adolfo Pagani.

La vita del Servo della Carità è regolata e contrassegnata dal testamento spirituale di don Guanella, sintetizzato nel binomio «Pregare e patire». Attuazione specifica di patimento è il lavoro quotidiano, come lasciò scritto il Fondatore nel Regolamento del 1910: «I Servi della Carità si desidera che siano massimi nell’esercizio della mortificazione coll’addossarsi e col piegare le spalle ad un lavoro soave ma continuo delle mansioni proprie». Lo tradusse fedelmente in pratica il giovane sacerdote don Luigi Alippi nella Colonia Agricola Beato Bernardino Tomitano per ragazzi orfani a Vellai di Feltre (1928-1930); nella Pia Casa S. Giuseppe per giovani ed anziani poveri a Gozzano (1930-1932), con le mansioni di superiore.

A Roma fu ancora superiore della Casa-Ricovero S. Giuseppe per vecchi e subnormali, a favore dei quali iniziò nel 1939 la costruzione del padiglione Pio XII. Trascorse il burrascoso periodo della seconda guerra mondiale parte nel Ricovero di Via Aurelia Antica, parte nella Parrocchia di S. Giuseppe al Trionfale dal 1942 al 1944. Liberata Roma dall’occupazione tedesca, fu di nuovo superiore dell’incipiente Istituto S. Giuseppe per orfani a Monte Sacro nell’anno 1944-1945. Terminato il conflitto bellico, fu trasferito alla direzione dell’Istituto S. Gaetano per ragazzi e artigianelli a Milano dal 1945 al 1946, anno in cui fu eletto Superiore generale della Congregazione dei Servi della Carità. La Provvidenza aveva preparato a responsabilità sempre maggiori don Luigi, che aveva fornito prova di lodevoli capacità amministrative e morali nei vari uffici affidatigli dai superiori durante i primi diciotto anni di sacerdozio. 

Non fa, quindi, meraviglia che, nel VII Capitolo generale, celebrato nella Casa del Noviziato di Barza d’Ispra, a metà luglio del 1946, don Alippi sia stato eletto III Superiore generale della Congregazione dei Servi della Carità. Don Leonardo Mazzucchi, che per ventidue anni aveva retto con singolare saggezza, mano ferma e fedeltà assoluta allo spirito guanelliano la tuttora giovane Congregazione maschile, consolidandone e moltiplicandone le opere in Italia e all’estero fu ben lieto che quest’oneroso compito passasse nelle mani di un sacerdote dalla tempra giovanile e dalla volontà adamantina. Don Alippi accettò con umiltà e semplicità quel servizio di suprema autorità nell’Istituto, confidando nella Provvidenza e nella protezione del santo Fondatore. Ben presto ebbe modo di rivelare le sue capacità e il prudente dinamismo. Visitate le case d’Italia e della Svizzera, si preoccupò delle Opere dell’Argentina e del Paraguay, ora che era tornato possibile solcare i mari. Si propose, fiducioso e a volte, si direbbe, ardimentoso, di sviluppare le esistenti e di portare l’Opera Don Guanella anche in altre nazioni dell’America Latina. Come, difatti, avvenne per il Brasile e il Cile nel 1947.

 Nella primavera del 1948 don Alippi intraprendeva il primo suo viaggio oltre l’Oceano per incontrare e incoraggiare quei confratelli, visitare gli istituti e le parrocchie funzionanti da anni, avviare le case di recente fondazione con la prospettiva di nuove, e affiancarvi scuole apostoliche per le vocazioni del luogo. I viaggi transatlantici si ripeterono nel 1950, 1954, 1957 con non lievi disagi di clima, abitudini ambientali, mezzi di trasporto, ma con sempre maggiori incoraggianti orizzonti di lavoro per la nascita e crescita di nuove opere guanelliane. In quei dodici anni di governo anche nell’Italia del dopoguerra gli istituti guanelliani si moltiplicarono e i vecchi si rinnovarono ed ampliarono:

lo Studentato S. Gerolamo di Fara Novarese fu trasferito ad Anzano del Parco;

il Seminario teologico trovò la sua sede a Chiavenna, in più regioni si aprirono scuole apostoliche;

la Casa Madre di Como fu in parte ristrutturata modernamente, in parte costruita ex novo.

Nell’amore per il Fondatore e nell’impegno assiduo di conservare quanto a lui si riferiva, don Alippi restaurò la casa paterna di don Guanella a Fraciscio e, sull’altura di Gualdera, collocò un gruppo di statue di bronzo riproducenti l’apparizione della Madonna al piccolo Luigi il giorno della Prima Comunione. La Provvidenza apriva pure le porte degli Stati Uniti d’America del Nord, dove don Alippi, giuntovi casualmente nel 1957, incoraggiato dalle Figlie di Santa Maria della Provvidenza, iniziava trattative con gli Arcivescovi di Philadelphia e di Detroit per due fondazioni per ragazzi subnormali.

Nel X Capitolo generale del 1958, don Alippi affidò la fiaccola della fedeltà e il pesante fardello del governo della Congregazione a braccia più giovani, pur conservandosi, nei dodici anni seguenti, saggio consigliere e superiore avveduto della Casa Madre di Como dal 1958 al 1964. In prossimità della beatificazione di don Guanella, da lui sempre fervidamente promossa, fece erigere nel Santuario del Sacro Cuore un monumentale altare per collocarvi in alto l’urna che avrebbe custodito la venerata salma del Fondatore. Con vivissima gioia partecipò al solenne rito della beatificazione, il 25 ottobre 1964 a Roma nella Basilica di S. Pietro, ed animò i festeggiamenti in Como nella Casa Madre e nel Duomo. Fu, ancora, merito suo se l’urna del novello Beato ebbe trionfale pellegrinaggio nella città di Como e nei paesi del Lago e della Valtellina fino a Fraciscio e a Gualdera nei mesi di maggio e giugno del 1965.

Dal 1965 al 1985 espletò la mansione di cappellano nella Casa Beato Luigi Guanella, gestita dalle Figlie di S. Maria della Provvidenza, e di rettore dell’annessa chiesa di Sant’Ambrogio ad Nemus. È di quel periodo un doppio viaggio in Spagna per lo studio e l’eventuale attuazione di un Collegio Apostolico ad Aguilar de Campoo e negli Stati Uniti per definire una nuova convenzione con l’Arcivescovo di Philadelphia per la prestigiosa Scuola don Guanella a Springfield per handicappati psichici. Da ultimo, quando ormai gli anni incominciavano a pesare e il suo spirito sentiva le battute negative della volontà sempre volitiva ma non più agile, nel 1970 si recò pellegrino in Terra Santa. Fu il tempo della grazia quando ebbe modo di leggere, a Nazareth, sui registri dei Padri Francescani, l’annotazione lasciata da don Guanella in occasione del pellegrinaggio del 1902, in cui scriveva: «Lascio a Nazareth e all’oriente parte del mio cuore, quasi auspicio di una futura presenza dell’Opera nella terra di Gesù».

D’allora don Alippi caldeggiò tenacemente una fondazione dei Servi della Carità a Nazareth. Nel 1975 sorgerà la «Holy Family House» per l’educazione degli handicappati in un vasto edificio, ricevuto in commodato dai Padri Francescani di Terra Santa. Don Alippi trascorse gli ultimi quindici anni di vita non più tra le preoccupazioni e gl’impegni che l’avevano accompagnato nell’intera vita ma nella tranquillità dello spirito, dedito alla preghiera che era stata da sempre la fonte ispiratrice delle sue decisioni. Era molto sofferente per i vari mali che lo minavano: aveva la forza di mascherare tutto con serenità e superava la solitudine dandosi a delle occupazioni a lui congeniali come quella di realizzare presepi in miniatura che donava ad amici e benefattori ma trovava anche il tempo per ascoltare tutte le pene che le vecchiette, acciaccate come lui, volevano raccontare. Un don Luigi nuovo e diverso, maturo e pronto stava per lasciare la terrena dimora.

I suoi resti mortali dormono il sonno di pace nella cappella funeraria dei Servi della Carità nel Cimitero Monumentale di Como in attesa della risurrezione finale. «Beati i morti che muoiono nel Signore... Riposeranno dalle loro fatiche perché le opere li seguono» (Ap 14, 13).