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Nel 1951 il vescovo dell'Uganda Josef Kiwanuka fu invitato a parlare in Germania, ad Aquisgrana; non conosceva la lingua tedesca e parlò nel suo dialetto africano Bantu ai fedeli ed amici tedeschi. Questi poterono meditare sull'opera che la grazia aveva compiuto, trasformando un piccolo selvaggio negro in figlio di Dio ed apostolo: dalla foresta al seggio episcopale. Quando, alla fine, fu letta una rapida versione del discorso, parecchi notarono che molte loro riflessioni corrispondevano alle idee espresse dal vescovo nella sua difficile lingua. Sulla fine del secolo scorso, un altro vescovo missionario venne a battere alla porta di don Guanella chiedendo ospitalità; avrebbe voluto parlare in cattedrale, ma non gli venne concesso, perché — come gli spiegarono — egli non parlava bene l'italiano e non sarebbe stato capito. Don Luigi Guanella lo accolse con entusiasmo, lo ospitò col massimo decoro che la sua povertà gli concedeva, e lo invitò a parlare ai suoi assistiti sulle missioni, sul regno di Dio. Allora l'opera missionaria non era largamente capita come adesso; anche per molti cristiani era come una lingua così poco chiara, che era meglio non darvi ascolto; don Guanella avrebbe saputo capire, con un po' di buona volontà, anche il dialetto Bantu. In realtà, accanto a una profonda imperiosa vocazione per i poveri e per ogni miseria, sentì sempre una forte vocazione missionaria che lo sollecitò per tutta la vita. In una lettera inviata al suo vescovo, nell'ottobre del 1881 egli affermava: « Già nel Seminario teologico e finché partii per Torino nel 1875 per lo spazio di più che dieci anni, feci istanza a questo Ordinario [cioè al vescovo di Como], perché mi benedicesse per le Missioni Estere. Nel 1878 [...] le esposi che certamente sarei partito per le missioni americane, alle quali m'invitava con tanta forza Don Bosco ». A lui e al compagno Scalabrini, quando avevano chiesto di passare nel Seminario per le Missioni Estere da poco fondato vicino a Milano, il vescovo aveva già risposto che le loro Indie, le loro missioni, erano in Italia. Ma non le dimenticò mai, e cercò di favorirle con ogni mezzo a sua disposizione, desiderò l'amicizia di missionari e ne seguì con ansia l'azione; infine cercò di agire egli stesso. È nota la sua azione per riportare il culto cattolico in alcune vallate protestanti della Svizzera, da secoli chiuse alla nostra religione. Fondò delle cappellanie a Spliigen e Andèer. Quando il vescovo di Coirà gli disse: « Ricordo che erano pochissime le valli della diocesi in cui si celebrasse il rito cattolico, attualmente di valli eretiche senza un sacerdote non abbiamo che la Val Bregaglia », don Guanella chiese: « Permetta a me di fare una prova in quella valle e mi benedica ».Sorsero così le stazioni cattoliche, cioè delle parrocchie in terra di missione, a Promontogno e a Vicosoprano, dove ora è fiorente la vita cattolica. Ormai settantenne, gli restò il coraggio di additare alle sue suore e ai suoi sacerdoti mete nuove per gli emigranti italiani, la cui fede era in pericolo; sognava ancora le missioni. Ma intanto le sue idee si erano ben chiarite, fissandosi in un metodo e in prospettive concordanti con la sua opera di carità. L'Opera Don Guanella ha avuto un largo sviluppo specialmente nell'America meridionale, in regioni dove la fede cattolica è in grave pericolo, e anche in zone, come nel Cile meridionale, che sono ancora di missione, dipendendo dalla Congregazione detta di « Propaganda Fide »: così nel Brasile, Argentina, Paraguay, Cile. Sono sorte seguendo le prospettive e il metodo previsto dal Fondatore: piuttosto che un'opera di prima linea, per così dire, cioè direttamente missionaria, la nostra Opera avrebbe potuto fare molto bene con un'azione ausiliaria, secondo le indicazioni poi date da Benedetto XV nel 1919. Questa idea don Guanella l'ebbe particolarmente chiara, quando tre vescovi dell'Egitto vennero a far visita alla sua colonia agricola di Monte Mario a Roma, nel 1904. Gli manifestarono il desiderio di avere opere simili in Egitto; gli dicevano: la mano pietosa, stesa a molti scismatici indigenti, li avrebbe prima sollevati materialmente e poi li avrebbe portati facilmente all'unità cattolica. « Ed egli sentì riaccendersi il desiderio di correre in aiuto di quei poveri vescovi missionari ». Avrebbe voluto moltiplicare le opere di carità, di assistenza, e ogni forma di aiuto: predicare con l'opera, là dove il missionario porta la parola di Dio. La prospettiva divenne un metodo per le nostre fondazioni; e don Guanella lo volle riassumere così: « Pane e Paradiso ». Così lo aveva trovato nel Vangelo, nell'insegnamento missionario dato da Gesù stesso ai suoi apostoli: « Quando arriverete in una città, curate prima gli ammalati, interessatevi cioè delle miserie umane per sollevarle, e poi annunziate: "È giunto tra voi il regno di Dio" II pane anzitutto, con ogni aiuto materiale che va dall'accogliere un giovane abbandonato, all'assisterlo con amore, istruirlo e dargli un lavoro: è troppo difficile discutere di cose divine con chi è ridotto agli estremi dalla fame, dalla miseria, dalla disperazione; mentre l'offrire una condizione di vita degna dimostra facilmente che davvero lo stimiamo ed è figlio di Dio. L'amore compirà il resto e aprirà quel cuore alla luce della verità. Ausiliari delle missioni in questo senso; ma anche, se occorresse, missionari; in ogni caso portatori ovunque del segno di Cristo: la carità da cui ognuno può capire che è presente Dio; come ancora dice il Vangelo: «Capiranno che siete miei discepoli se vi amerete » (da, "Gli 'Ultimi', i primi della sua missione" - Don Piero Pellegrini)