La Quaresima è un tempo “forte” tutto orientato verso la Pasqua, cuore e vertice dell’anno liturgico.
Di origini antichissime, essa si è andata storicamente sviluppando attorno al suo duplice carattere di preparazione e di “memoria” del Battesimo e di tempo penitenziale.
Per molti, per i più forse, l’idea della Quaresima è rimasta legata a qualche atto di mortificazione personale, alle cenere il mercoledì iniziale, tutto distaccato dal resto della vita e dal contesto comunitario.
Essa invece è, nel suo insieme, un itinerario di fede, di penitenza e di carità per tutto il popolo di Dio.

A. Come Itinerario di Fede: la Quaresima fa ripercorrere le tappe del cammino “catecumenale” attraverso la catechesi e un più assiduo ascolto della Parola di Dio proposta alla comunità secondo un disegno pedagogico graduale e progressivo. E’ come se la comunità ridiventasse ancora “catecumena” per giungere poi a riproclamare nella gioia la professione di fede, dopo aver di nuovo rinunciato agli “idoli” e alla logica del peccato e scelto Cristo come unico Signore (Es. dell’Esodo percorso dal popolo ebraico).
E’ questo il significato profondo di quanto la liturgia della notte di Pasqua domanda con la “rinnovazione delle promesse battesimali”.
Si tratta infatti di camminare “in novità di vita” attuando il comandamento nuovo dell’amore verso Dio e verso il prossimo.

B. Come itinerario di Penitenza: ha il suo solenne inizio con l’imposizione delle ceneri. La Quaresima è definita da A. Schmemann: “una scuola di pentimento”, che educa a riconoscere il proprio peccato sia come singoli che come comunità; non solo a riconoscerlo, ma anche a portarvi rimedio.
La penitenza quaresimale non può quindi limitarsi ad essere “interna ed individuale”, deve essere anche “esterna e sociale” (cfr. Sacr. Concilium, 110).
Lo esige pure il dovere della riparazione sia dei peccati sociali che delle conseguenze che i peccati personali producono nella chiesa e nella società.
Infatti i peccati sociali quali, ad esempio, i peccati contro la vita (aborto, eutanasia, omicidi, guerre…); le ingiustizie ai diversi livelli, l’inquinamento dell’ambiente naturale, la sottrazione di risorse che provocano la fame nei paesi del Terzo mondo, il consumismo, la pura logica del profitto nell’economia…la corsa agli armamenti, ecc. per essere sradicati esigono risposte collettive proporzionate, che solo un cambiamento di mentalità (conversione) e di cultura ispirate al Vangelo ed un largo coinvolgimento possono assicurare.
In questa prospettiva la Quaresima assume il carattere di “un digiuno grande e generale” come dice S. Agostino, che comporta rinuncia al peccato (egoismo) e ai suoi frutti e specialmente apertura ai bisogni dei fratelli, ai quali viene destinato ciò di cui ci si priva, secondo l’antica logica cristiana del “privarsi per condividere e per assumere”, già espressa nel “noi digiuniamo e doniamo” di S. Agostino.
Il digiuno inoltre libera dalla invadenza di ciò che è materiale per ridare il primato a ciò che è spirituale(“non di solo pane vive l’uomo”) favorendo un atteggiamento di distacco e di mortificazione anche del corpo che ha nell’astinenza delle carni dei venerdì e nel digiuno del mercoledì delle ceneri e del venerdì santo, una indicazione ed un segno per tutta la comunità.
Anche il sacramento della penitenza va celebrato collocandolo in questo cammino di revisione di vita e le opere di misericordia, che ne sono la conseguenza , rivestono la forza di un gesto di riconciliazione che restituisce il maltolto ai poveri, ai deboli e ai dimenticati,. Facendo uguaglianza là dove c’è stata ingiustizia, sopraffazione e indifferenza.

C. Come itinerario di carità alimentato dalla Parola di Dio che di continuo richiama la comunità cristiana riunita in assemblea ai diritti “dello straniero, dell’orfano e della vedova”, la Quaresima riveste il carattere di tempo destinato all’esercizio delle opere di giustizia e di carità.
“Qual è, infatti, il digiuno che gradisco –dice il Signore- se non spezzare le catene inique, rimandare liberi gli oppressi, accogliere il forestiero…”, cui fa eco la parola di Pietro “vergognatevi voi che trattenete le cose altrui, imitate piuttosto la bontà divina e così nessuno sarà povero”.
Solo i gesti concreti dimostrano che la parola di Dio sta cambiando la logica della vita dei credenti. E la cambia misurandola sull’attuale situazione sociale, che attende una risposta adeguata ai gravi problemi che la travagliano, secondo una linea di “missionarietà che ama la gente povera” e che ha il coraggio di donarsi senza riserve.
Questo impegno di testimonianza diventa realizzabile ad una condizione e cioè che la comunità si dia il tempo e gli strumenti per vedere, riflettere e agire.
Di qui l’urgenza di pensare anche ad un “osservatorio permanente delle povertà” in grado di offrire quei dati che riflettono “le dinamiche dei problemi della gente in ordine ad un coinvolgimento sistematico della chiesa locale” (Cfr. posizioni della Chiesa Italiana dopo i grandi Convegni ecclesiali nazionali; Enciclica di Benedetto XVI Caritate in Veritate).
Così il pane eucaristico spezzato sulla mensa dell’assemblea conduce la comunità a “spezzare la propria vita” per farne dono, secondo la misura della carità concessa a ciascuno dallo Spirito di Dio.
Maria, figura della chiesa, contemplata accanto alla croce di Cristo sollecita anch’essa la presenza della comunità ai piedi delle infinite croci degli uomini per recare il conforto e il rimedio dell’amore, ma anche per apprendervi nuovi insegnamenti.

Ogni santo ha un riferimento forte e profondo alla Vergine Maria. Don Guanella ha vissuto un triplice amore mariano: all'Immacolata di Lourdes, alla Madonna Madre della Divina Provvidenza e alla Madonna del lavoro. Don Attilio Beria, studioso di don Guanella, afferma che "L'Immacolata è stato il primo amore del Fondatore".
Nella sua età giovanile, quella del discernimento e della impostazione della propria vita, il riferimento mariano è stato alla Vergine Immacolata di Lourdes. Aveva infatti 12 anni quando il Papa Pio IX ha proclamato come dogma di fede il mistero dell'Immacolato concepimento di Maria. Vivere senza peccato è certamente l'ideale più alto, più bello e più nobile per un giovane che si orienta al Sacerdozio e alla Vita consacrata. Ed è certamente per questo motivo che in questa tappa particolare della sua vita, don Guanella, ha guardato alla Immacolata, con occhi attenti e appassionati del giovane che ricerca il bello e il giusto. Conservava l'immagine della Immacolata nel suo portafogli per averla modello e riferimento continuo per ogni situazione della sua vita, come conforto e sprone nella quotidiana battaglia contro il male e come esempio riuscito di possibile vittoria sulla tentazione e debolezza della propria carne.
Don Guanella, offre a tutti noi l’esempio della sua esperienza spirituale che renderà anche il nostro cammino, come il suo, più sereno e fruttuoso.

BEATIFICAZIONE DEL SACERDOTE LUIGI GUANELLA

OMELIA DI PAOLO VI

Domenica, 25 ottobre 1964

 Vogliamo salutare quanti con Noi esultano della Beatificazione di Don Luigi Guanella: il Vescovo di Como per primo, che vede la sua grande ed anche a Noi carissima diocesi risplendere di così bella e sua propria luce di santità; e sono col degno e fortunato Pastore i rappresentanti del comune di Campodolcino, nel cui territorio, a Franciscio, il Beato ebbe i natali: bella borgata alpestre, da Noi più volte percorsa, quando visitammo la Casa Alpina dell’Alpe Motta, e fu una volta per benedirvi la grande statua alla Madonna d’Europa eretta alle falde delle nevi alpine, e poi di nuovo scendendo a rendere omaggio, oltre Pianazzo, alla Madonna di Gallivaggio. Così certamente meritano il Nostro saluto i Fedeli, qui presenti, di Prosto, di Savogno, di Traona, di Gravedona, di Olmo, di Pianello, dove Don Guanella esercitò il suo ministero pastorale e iniziò l’opera sua. Lo meritano i Salesiani di Don Bosco, il quale fu grande maestro ed amico al nuovo Beato e, con il suo insegnamento ed il suo esempio, lo aiutò a determinare la sua vocazione di Fondatore. Così alle Autorità ed ai Fedeli di Como, di Sondrio e di tutta la Val Tellina l’espressione della Nostra compiacenza e dei Nostri voti.

Ma in questo momento il Nostro pensiero va in modo speciale alle Famiglie Religiose fondate da Don Guanella: i Servi della Carità, e le Figlie di Santa Maria della Provvidenza, che vediamo qui festanti in grande numero, e che sono gli uni e le altre ben noti anche a Roma, dove essi prodigano mirabili fatiche in due Parrocchie e in diverse case di assistenza. Va gioioso e paterno il Nostro pensiero alle case di formazione dei Servi della Carità, alle loro Scuole e alle loro opere per la Gioventù (ricordiamo fra tutte il complesso di istituzioni intorno alla nuova e bella chiesa di S. Gaetano, da Noi consacrata, a Milano); va agli Istituti per gli anormali, per i poveri, per gli anziani, alle Colonie marine e montane e alle lontane Missioni, ai Santuari assistiti dai Figli di Don Guanella. E così abbiamo in questa ora benedetta presenti allo spirito le innumerevoli istituzioni di pietà, di educazione, di assistenza, in Italia e all’Estero, dove le ottime e pie Figlie di Santa Maria della Provvidenza, silenziosamente, assiduamente dànno della carità di Cristo splendida testimonianza.

Quali eserciti di seguaci e di preferiti del Vangelo! quale popolazione di bambini, di lavoratori, di fedeli, di sofferenti, di malati, di infelici, di vecchi, vediamo intorno a Don Guanella, ed ora tutti con lo sguardo rivolto verso di Noi: quale popolo della carità! quale città di Cristo! quale giardino di fervore, di dolore e di amore! Vi salutiamo, carissimi tutti; vorremmo a ciascuno parlare; vorremmo a ciascuno comunicare la Nostra gioia, e da tutti accogliere la vostra per questo giorno felice; tutti, nel Signore, vi benediciamo. Voi siete la famiglia di Don Guanella; voi siete la sua gloria; voi siete la sua grandezza!

A questo punto la Nostra considerazione del magnifico quadro delle opere di Don Guanella sembra davanti a noi trasformarsi in visione, e presentarci proprio lui, il nuovo Beato Don Luigi Guanella, che, ammirando lui stesso il cerchio vivente e splendente dei suoi Figli e dei suoi beneficati, placidamente, ma autorevolmente, ancora ci ammonisce, come faceva quand’era ancora in questa vita terrena: «È Dio che fa!». È la divina Provvidenza. Tutto è di Dio: l’idea, la vocazione, la capacità di agire, il successo, il merito, la gloria sono di Dio, non dell’uomo. Questa visione del bene operoso e vittorioso è un riflesso efficace della Bontà divina, che ha trovato le vie per manifestarsi e per operare fra noi. «È Dio che fa!».

Questo immaginario, ma non illusorio colloquio, pare a Noi soddisfare in buona parte il segreto desiderio ch’è, al termine di questa solenne cerimonia, in ciascuno di noi: il desiderio di capire. Dopo aver conosciuto, ammirato, esaltato la vita d’un servo di Dio, dichiarato autentico seguace di Cristo, sorge nell’animo la legittima, anzi la doverosa curiosità di capire come e perché il nuovo fenomeno di santità si è prodotto in questa nostra scena umana. Vorremmo carpire il segreto e cogliere il principio interiore di tale santità; vorremmo ridurre ad un punto prospettico unitario la vicenda avventurosa, complicata e febbrile della vita prodigiosa del nuovo Beato, che diviene per noi degno di imitazione e di culto. È questa una tendenza consueta alla mentalità moderna, quando essa si pone allo studio d’una qualche singolare personalità. E non sarebbe facile riuscire a classificare sotto un aspetto solo la figura di Don Guanella, se egli stesso non ci aiutasse e quasi ci imponesse a vedere in lui null’altro che un effetto della Bontà divina, un frutto, un segno della divina Provvidenza.

Non è che questo suo atto di umiltà e di religiosità ci dica tutto di lui; tanti altri aspetti della sua figura ci offrirebbero quel punto prospettico focale che ci consentirebbe di definire in sintesi la sua anima e la sua opera; ma per ora, a congedo ed a ricordo della Beatificazione di Don Guanella, possiamo obbedire alla sua voce rediviva: «È Dio che fa!». E se diamo ascolto davvero a questa voce, che vorrebbe svalutare in umiltà la grandezza ed il merito dell’opera da lui generata, assistiamo non già ad una svalutazione, ma ad una glorificazione, perché possiamo concludere: dunque l’opera di Don Guanella è opera di Dio! E se è opera di Dio, essa è meravigliosa, essa è benefica, essa è santa. Cresce in noi la gioia; ma nasce insieme un problema, un grande e delicato problema, il cui ricordo ci seguirà in avvenire, pensando appunto al Beato, che abbiamo messo su gli altari: il problema dell’azione divina, il problema della Provvidenza, in combinazione con l’azione umana.

Esiste una Provvidenza? E come interviene nelle nostre cose? Dobbiamo lasciare ad esse libero corso senza pensare di darvi un senso per poi attendere alla fine se risulta qualche disegno, a noi ignoto in questa vita e svelato solo nella vita futura? E quale atteggiamento occorre perciò tenere davanti a questa imponderabile azione divina nel campo della nostra vita: di rassegnazione passiva e fatalista, che non si cura né di quello che Dio fa, né di quello che noi dobbiamo fare in ordine a Lui? Ovvero dobbiamo assumere un atteggiamento di continuo riferimento delle nostre azioni alla volontà di Dio, in modo che esse risultino, sotto aspetti diversi ma convergenti, tutte di Dio e tutte nostre? Indubbiamente è questo secondo atteggiamento che dobbiamo adottare; è l’atteggiamento che mira a fare di noi, come dice S. Paolo, dei «collaboratori di Dio» (1 Cor. 3, 9). Collaborare con Dio dovrebbe essere il programma della nostra vita. Ed è il programma dei Santi.

Ce lo dimostra, tra gli altri, il nostro Don Guanella, lasciando così scoprire nella sua anima e nella sua opera le linee direttrici che le definiscono. Vedremo la linea propriamente religiosa come linea maestra: tutto si fa per interpretare, per eseguire, per onorare la volontà di Dio.

Una grande pietà, una assidua preghiera, uno sforzo di continua comunione con Dio sostiene tutta l’attività dell’uomo di Dio: si direbbe che non pensa che a questo. E allora una grande umiltà penetra ogni proposito e ogni fatica di lui: potrebbe essere grande tentazione in chi compie grandi imprese di credersi bravo; di dirsi autosufficiente, di attribuire a sé il merito delle proprie opere; il senso religioso invece che le informa impedisce tale pericolosa insipienza, e infonde nel servo fedele due altri movimenti spirituali, che sembrano l’uno all’altro contrari, e sono invece corrispondenti e concorrenti: uno è il movimento di tensione, l’altro di distensione. Di tensione volontaria il primo: se. siamo al servizio di Dio nessuno sforzo ci deve costare; ed è questo che noi maggiormente riusciamo ad ammirare nell’operaio del regno di Dio: la tenacia, l’energia, il coraggio, lo spirito di eroismo e di sacrificio. Di distensione confidente l’altro: se siamo al servizio di Dio nessuna cosa ci deve fare paura, la fiducia è la vera nostra forza, la sicurezza - fino al rischio, talvolta! - che l’assistenza del Signore, la Provvidenza, come diciamo, non mancherà: questa fiducia forte, positiva, amorosa è meno visibile all’osservatore profano; . ma nell’animo del santo è l’elemento principale della sua fortezza e della sua grandezza.

Ed è poi più facile capire come uno spirito, così strutturato interiormente, balzi con audacia formidabile al compimento delle opere di misericordia più nuove e più ardue; ricordiamo l’insegnamento dell’apostolo S. Giacomo: «La religione pura e senza macchia è questa: visitare gli orfani e le vedove nella loro tribolazione» (Iac. 1, 27).

Dalla psicologia religiosa, a cui abbiamo accennato, scaturisce l’attività prodigiosa del servo di Dio; dalla carità che a Dio lo unisce deriva la carità che lo rende prodigioso benefattore dei fratelli bisognosi. L’aspetto sociale del Beato meriterebbe qui il suo vero panegirico; ma questo lo fanno i suoi figli ed i suoi ammiratori; lo fanno, con l’eloquenza dei fatti e delle cifre, le sue opere. A Noi ora basta raccogliere il primo filo di tutta codesta meravigliosa storia della carità operante in misericordia; e trovarlo, quel filo, annodato al suo punto di partenza, come alla sorgente dell’energie soprannaturale che tutto lo percorre: «È Dio che fa!». Non è bello? non è stupendo?

Lodiamo dunque Iddio nel suo servo il Beato Luigi Guanella; e preghiamolo che per l’intercessione di questo campione della fede e della carità ci dia grazia di imitarlo e tutti così ci benedica.

Don Guanella è stato uno dei sacerdoti che movendosi attorno a grandi papi ha contribuito con la sua azione e con l'esempio a cambiare il volto della Chiesa del suo tempo, tenendosi sempre stretto ad essi come germoglio al tronco rigoglioso. Don Luigi li ha sostenuti in ogni avversità, difendendoli, sposandone in pieno le aspettative e i progetti; così appoggiò l'azione "politica" di Pio IX, l'impegno sociale di Leone XIII, la preoccupazione pastorale di Pio X, gli interventi di Benedetto XV volti a riportare la pace e l'ordine internazionale sconvolti dalla prima guerra mondiale.
Tanti aneddoti si possono raccontare sui rapporti talvolta familiari tra don Luigi e i papi. Uno per tutti:
Inauguratosi il Ricovero Pio X a San Pancrazio, don Guanella, il 10 febbraio 1907, si recò ai piedi del Santo Padre, coi principali suoi cooperatori, con a capo il commendatore Giuseppe Canevelli, consigliere di Stato. Dopo che ebbe parlato una signora, mostrando il bene che si faceva ai poveri deficienti nelle case di don Guanella, Sua Santità, facendo atto di assentimento, esclamò: "Questo è il vero metodo di educazione. Questa è la rigenerazione che l'uomo compie per mezzo della carità quando le persone disabili si vedono trattate non con la verga ma con dolcezza evangelica."
Poi chiese a don Guanella il numero delle sue Case; sentito che erano oltre trenta i ricoveri e venti tra asili e ospedali, domandò: "E i denari? Voi siete un gran ricco, perché la Provvidenza vi aiuta largamente!".
Di seguito riportiamo una bella pagina che ci fa conoscere come don Guanella considerava il Papa e la sua missione nel mondo.

“Eccoci dinanzi una mirabile scena; è sì bella come un’anticamera di paradiso. Il sole che splende nel cielo e il pontefice del Signore che illumina il mondo. Il sole è astro materiale nel quale si distinguono un colore, un calore, uno splendore. Il pontefice è astro morale nel quale a meraviglia si distinguono le tre potenze dell’anima: intelletto, memoria e volontà. Il sole materiale è astro massimo che s’aggira su se stesso in cammino di rotazione e di rivoluzione e il pontefice, astro morale nel mondo, è autorità massima nella società degli uomini come il sole nel firmamento. Il sole è la vita della terra e il pontefice è la vita della società. Il sole ci è carissimo, ma non conosciamo completamente la sua natura. Oltremodo caro ci è il pontefice, benché gli occhi umani ne scorgano a stento la dignità sublime. Il sole dardeggiando su quella gocciolina nel cavo d’una foglia vi descrive i sette colori dell’iride. E il pontefice fa scender dall’alto un raggio di divina grazia che sulla terra fa apparire sette regali virtù, le quattro cardinali e le tre teologali, e in cuor del cristiano sette doni celestiali, i sette carismi dello Spirito Santo.
Il pontefice è grande ed io sono minimo, ma ugualmente io gli posso essere figlio diletto, come egli mi è padre amantissimo! Io sono ben guardato dal pontefice come dal sole che mi circonda. io sono felice.


(L. Guanella, Le glorie del pontificato, 1887)

Il perdono, a volte tanto difficile da concedere, è una delle opere più belle che impreziosisce l'animo umano. Nella preghiera del Padre Nostro chiediamo al Signore di rimetterci i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori.
Don Guanella scriveva: "Quando potrai di cuore offrirti in favore di quelli che ti perseguitano? Questo ultimo solo è segno di cuore ottimo". Che il cuore di Don Guanella fosse a questo livello di perfezione è testimoniato da tante persone che lo hanno conosciuto. Egli di avversari ne ebbe molti: alcuni di buona fede ma anche alcuni mossi da cattiveria. Con loro fu sempre magnanimo, non solo nel perdonare e dimenticare, ma anche nel ripagare, con il bene, il male ricevuto e coprendolo con il velo del perdono. Qualche volta è capitato che, con grande meraviglia dei confratelli, invitasse anche a pranzo chi gli aveva fatto del male. Fu visto avvicinarsi con tutta cordialità a persone che l'avevano avversato per lunga serie di anni. Parlò e scrisse con grande stima di taluni, che l'avevano contraddetto e ostacolato nelle sue intenzioni e nelle sue imprese. Rispettava sempre la rettitudine degli intenti anche quando apparivano malevoli.
Tutto ciò può apparire difetto di troppa indulgenza se non di buonismo; invece non era altro che la manifestazione coerente del suo cuore misericordioso.
Don Guanella era discreto e opportuno nel correggere, prudentissimo nell'accusare, generoso nel compatire. (Tratto da "Un cuore misericordioso - Tito Credaro")

Un amore particolare di don Luigi Guanella è per la Madonna del lavoro. È la devozione che orienta la sua attività di fondatore. Alla Madonna del lavoro, don Luigi, dedica la Casa di Nuova Olonio San Salvatore, una delle sue conquiste pedagogiche e riabilitative.
In quella zona paludosa era riuscito, coinvolgendo anche un gruppo di suoi disabili, a portare la bonifica del terreno e a ricostruire l’antico paese di Olonio.  Era per lui un orgoglio aver dimostrato che nessuno è così incapace e sprovveduto da non portare alcun aiuto e soccorso agli altri. Fin dagli inizi del suo apostolato aveva, in sintonia con San Benedetto, coniato il suo motto: Oremus et laboremus.
Aveva appreso questa devozione forse dall’ingegner Sartirana e dal congresso di Amiens nel 1894 che aveva tanto raccomandato la devozione a “Notre Dame du Travail”.
Don Guanella intendeva così mettere sotto il manto di Maria le ansie, le speranze, i dolori e le attese, i lutti e i contrasti come i benefici e le gioie che dal lavoro l’uomo può ricevere: benessere attraverso il sacrificio.
Era sua intenzione tutta particolare affidare a questa Madre i più deboli, i più esposti alla sopraffazione, i più incapaci di competere in questa dura e spesso violenta lotta per la vita. Al riguardo scriveva: “Lavoriamo, ma credendo in Dio, sperando in una vita futura, amando il prossimo nostro per amare il Signore. E la Vergine Santa alimenti in noi quelle virtù che, rendendoci operosi, ci faranno utili e buoni” (LDP, 1906).

Il significato del termine "Misericordia".
Sono come due registri musicali che vorremmo incrociare in contrappunto: da un lato c’è il tema della famiglia che ci ha accompagnato tutto lo scorso anno, anche sulla scia del Sinodo dei vescovi. D’altro lato, dall’8 dicembre si è avviato l’Anno Santo straordinario della misericordia.

Ebbene, cercheremo – attraverso quel “grande codice” della nostra fede e della cultura occidentale che è la Bibbia – di illustrare queste due realtà intrecciandole tra loro, cioè scoprendo la presenza della misericordia all’interno della famiglia. Possiamo partire dallo stesso vocabolario. Infatti, la parola biblica primaria che nella Bibbia definisce l’atteggiamento misericordioso è desunta dalla matrice stessa della famiglia, cioè la generazione. In ebraico si tratta di una radice verbale, rhm, che dà origine al vocabolo rehem/rahamîm, cioè le “viscere”, il grembo materno, ma anche l’istinto paterno per il figlio.

Il vocabolo è applicato a Dio stesso, senza nessun imbarazzo, come possiamo vedere in due dei tanti possibili passi da citare. «Come un padre prova amore (rhm) per i suoi figli, così il Signore prova amore (rhm) per quelli che lo temono [cioè, credono in lui]» (Salmo 103,13). Oppure: «Si dimentica forse una mamma del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro ti dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Isaia 49,15).

Essere misericordiosi equivale, allora, a essere presi “fin nelle viscere”, con un amore profondo, intimo, spontaneo e assoluto fino a raggiungere il culmine descritto da Gesù nell’ultima cena: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Giovanni 15,13).

È curioso notare che tutte le 114 “sure” (o capitoli) del Corano – tranne la nona, frutto forse di un frazionamento – iniziano con due aggettivi basati sulla stessa radice rhm presente anche in arabo: «Nel nome di Dio misericorde (al-rahman) e misericordioso (al-rahîm)». Questo termine simbolico, tradotto in greco, appare anche nel Nuovo Testamento, ed è il verbo splanchnízesthai. Gesù ha il cuore attanagliato da questo sentimento quando incontra i sofferenti. Come quando s’imbatte nel funerale di un figlio unico di una vedova del villaggio di Nain (Luca 7,13).

L’esperienza si ripropone quando egli vede davanti a sé la folla affamata che lo ha seguito e ascoltato: «Provo commozione (splanchnízomai) per questa folla che mi segue da tre giorni senza mangiare» (Marco 8,3). La stessa emozione Gesù la prova davanti ai due ciechi di Gerico (Matteo 20,34), o con un lebbroso (Marco 1,41).

Questa misericordia “viscerale” deve essere vissuta anche dal cristiano: è necessario imitare il buon Samaritano che ha una reazione di tenerezza nei confronti del ferito abbandonato dai banditi sul ciglio della strada (Luca 10,33). Ma la storia familiare più bella è quella narrata da Gesù nella parabola del “figlio prodigo” ove il verbo splanchnízomai definisce il commuoversi del padre quando vede all’orizzonte il figlio fuggito da casa che torna.

                                                                                                                                                                   

  Cardinal Gianfranco Ravasi