Don Carlo entrò nella Casa don Guanella, Noviziato di Barza d’Ispra proveniente dallo Studentato S. Gerolamo di Fara Novarese. Era prossimo ai vent’anni, fra i più attempati. Era il tempo nel quale il Noviziato, che durava due anni, si compiva al termine dei cinque anni del ginnasio e l’inizio dei tre del liceo classico, verso i sedici-diciotto anni.
Nato a Garbagnate Milanese (MI), il 2 novembre 1922
Entrato nello Studentato di Fara Novarese,
il 29 settembre 1936
Noviziato a Barza d’Ispra, Casa don Guanella,
dal 12 settembre 1942
Prima Professione a Barza d’Ispra, il 12 settembre 1944
Professione perpetua a Barza d’Ispra,
il 12 settembre 1947
Sacerdote nel Duomo di Milano, il 3 giugno 1950
Consacrato da Sua Em. il Card. Ildefonso Schuster
Deceduto a Como, Casa di Riposo, il 6 gennaio 1997
Sepolto nel Cimitero di Garbagnate (MI)
L’Italia stava combattendo la seconda grande guerra. Nella pesante atmosfera sociale, la gente viveva nella penuria dei beni di consumo, alimentari in particolare, con tanta paura. Esercito regolare e squadre di partigiani si confrontavano con frequenza; incursioni aeree costringevano di giorno, e più di notte, a cercare incolumità in rifugi in parte a rischio. Fortunatamente, il Noviziato era lontano da centri urbani bersaglio della guerriglia, in posizione isolata, difeso da una grossa macchia di verde con alberi secolari in un vasto parco. I vantaggi che i religiosi potevano godere in quella casa erano dati dalle colture d’ortaggi e dall’allevamento del bestiame, che dava latte e carne in tempi tanto difficili. Non mancavano, comunque, disagi e privazioni di ogni tipo.
Due motivi avevano affrettato a Bernareggi l’ingresso in Noviziato: l’accelerazione della preparazione in riguardo dell’età e la sottrazione alla chiamata militare, ancora in atto per gli appartenenti a comunità ecclesiastiche. L’entrata nello Studentato di Fara Novarese, infatti, era avvenuta con qualche anno di età superiore alla media, dop’aver lavorato nella bottega di un artigiano. Desiderava farsi prete, ma non aveva la percezione chiara del quando, come e dove. Per il seminario diocesano era in ritardo: l’ingresso coincideva con il termine del corso delle elementari. Aveva sentito parlare di don Guanella che nel passato frequentava il paese. Da alcuni suoi sacerdoti fu indirizzato al seminario di Fara Novarese. Terminò gli studi liceali accorpando diversi anni del corso e fu in Noviziato.
Luogo e tempo meravigliosi per la sua crescita intellettiva e morale. Ne sfruttò al massimo tutti gli aspetti, quasi presagendo le gravose responsabilità che la Congregazione gli avrebbe affidato nel resto della sua vita in quel luogo. Professo nel 1944, raggiunse lo Studentato S. Gerolamo di Fara Novarese, collaboratore nell’educazione degli aspiranti al sacerdozio e studente di teologia. Si legò in perpetuo alla Congregazione dei Servi della Carità ed accettò di andare a lavorare nell’Istituto Anna e Natalia, di Amalfi (SA), in un momento della sua storia dolorosa e penosa per la povertà che si viveva come strascico pungente della guerra da poco terminata.
Quella casa ha cessato la sua attività negli anni settanta. Ad affidarcene la gestione era stato l’Arcivescovo Mons. Ercolano Marini, teologo della Trinità, che volle che la chiesa dell’istituto fosse il santuario dedicato alla Santissima Trinità. Il complesso soffriva di ristrettezza di spazi: Amalfi, che s’allarga in un magnifico arenile, si stringe poi ad imbuto lungo le rive di un torrente alluvionale, tutto scale e scalette, fra due aspre alture. Non soddisfaceva le esigenze dei tempi nuovi ed è stato abbandonato. Bernareggi vi restò due anni; n’ebbe il dono del sacramento del Suddiaconato, allora di capitale importanza per il significato: il passo in avanti richiesto dal rituale indicava la decisione irrevocabile del celibato. Si esauriva il tempo della preparazione. Giunto ormai all’ultimo anno, nutriva il desiderio di avvicinarsi alla residenza dei cari del cuore, per averli accanto al momento dell’Ordinazione. Lo accontentò il Superiore generale.
A lui s’era rivolto il direttore della Casa S. Luigi di Albizzate (VA). «Ho qui due chierici al termine degli studi. Qui hanno lavorato, qui desiderano loro, desideriamo noi di vederli preti. Chiedo di non trasferirli». «Bene, fu la risposta, non te li cambio, anzi n’aggiungo altri due». I quattro chierici ricevettero il Diaconato e il Presbiterato nel Duomo di Milano, il 3 giugno 1950, dalle mani del beato Card. Schuster. Il giorno seguente, festa della Santissima Trinità, l’intero paese d’Albizzate partecipò alla gioia dei quattro novelli con addobbi nell’intero quartiere, banda musicale e pranzo comunitario.
A settembre, ebbero la destinazione: due accolsero l’invito per la Missione, in Argentina l’uno, in Brasile l’altro; un terzo ebbe la cura di un gruppo di ragazzi in orientamento vocazionale, il quarto – don Bernareggi
– fu mandato a Barza, al Noviziato.
La bella villa, dotata oltre che di campi, di uno splendido parco all’inglese, accoglieva le speranze della Congregazione. Molti i novizi; numerosi anche i giovani professi. In trent’anni di permanenza, don Carlo vi s’immedesimò: partito con l’incarico di sorveglianza immediata, assistente, salì man mano i vari gradini di vice-maestro, maestro, superiore della comunità.
Impossibile racchiudere il lavoro di lunghi anni in poche righe. È vero, non mise mano a grandiose opere di ristrutturazione degli ambienti, non costruì, non innovò ma la sua fu un’azione da potersi definire di bulino, diretta all’intimo, tesa a formare l’uomo, il religioso, il guanelliano.
Una vicinanza assidua nell’intero svolgimento della giornata, nei momenti di vita comune e in quelli personali, nell’ora della preghiera, dell’istruzione, del lavoro, della ricreazione: un’azione solo in apparenza rigorosa, in realtà la sua era vicinanza di responsabile affettuoso e sensibile, presenza attenta di formatore che segue con pazienza, prevenendo le difficoltà, infondendo coraggio nei momenti di crisi. Corredo prezioso della sua arte educativa, al di sopra della parola, sempre pacata, personalizzata, ricca di esperienza, trasparivano fortissimi due elementi inscindibilie inalterabili: il precedere con l’esempio e l’accettazione del sacrificio.
Ben compreso della sua missione di forgiatore e formatore, mette a disposizione quanto è e quanto ha, con l’immancabile aiuto soprannaturale. L’intelligenza, l’apertura al buono e al bello, la maturità acquisita negli anni della formazione personale, gli consentono di vedere il giovane nella sua realtà, con gli entusiasmi, le immancabili depressioni, pronto ad usare il polso di ferro, ma attento al guanto di velluto. Sa di dover sospingere i pigri e di sostenere i deboli, di regolare i focosi.
Particolare attenzione va messa alla conoscenza dell’Opera, da acquisire con lavoro assiduo, fino a identificarne lo spirito con la propria vita mediante impegno di ascesi, di penitenza, di lavoro fino a coricarsi a sera con le ossa rotte dalla fatica, educandosi alla fede fino a vedere nei poveri i «propri padroni», a cedere un posto a tavola a quello che altri rifiutano.
Con la preghiera e lo studio, c’è il lavoro manuale, quello che dà la soddisfazione di mangiare il proprio pane, sapido di sudore. Persuaso che «l’arco troppo teso si spezza», non lascia mancare i momenti di svago. Se il primo posto è dato a quello che il santo Cafasso definisce «i divertimenti dei preti»: le belle funzioni, con i bei canti e la ricchezza della liturgia, non trascura i divertimenti più terra terra come il gioco delle bocce e il calcio, il basket, le passeggiate nella natura e nell’arte, le recite come sprone emulativo ed impegnativo. Si tratta di mutare indirizzo ad un precedente sistema; ma non dubita. Anzi. Approfittando che si stanno costruendo nuovi ambienti, chiede e ottiene l’inserimento d’una sala che, oltre a riparare dai rigori dell’inverno, dia possibilità ai chierici d’esercitarsi nella recita di brani classici e leggeri su di un palco stabile e non più traballante come lo era stato fino allora.
Gli anni si susseguivano, sempre uguali e sempre nuovi nell’alternarsi delle persone. La salute di don Carlo reggeva, anche se non era mai stato un colosso.
La grossa scoppola giunse nel 1978. Partì con manifestazioni che avevano la fattispecie di epilessia, e si concretarono in un’affezione tumorale alla testa, esattamente al cervello. Ricoverato al Besta, l’Istituto dei tumori in Milano, fu sottoposto all’asportazione di un gliobastoma frontale destro. La buona costituzione fisica, l’abilità dei chirurghi e sicuramente l’intervento dal Cielo, del Beato Guanella, lo riportarono a casa, guarito. Quasi un ricordo, un ammonimento alla gratitudine, la caduta dei capelli. Adottò un copricapo abituale. Restò al suo posto e al suo servizio, per ancora un triennio. Poi tornò nella Casa S. Luigi di Albizzate (VA), un ritorno alla casa da cui era partito con il compito di superiore.
Vi portò una maturata paternità, l’impegnato interesse legato all’ufficio di direttore, che favoriva l’azione educativa senza minimamente limitarla. La salute andava declinando, pur lasciandogli capacità e forze sufficienti per continuare nell’ufficio assegnatogli. Fu contento di conchiudere i sei anni di regola e quindi d’affidare ad altri la direzione.
Mai si considerò uomo finito; mai credette di potersi mettere a completo riposo. Continuò a dare la propria collaborazione: prestazioni di ministero, attività della casa, riordino della biblioteca che lavori di muratura avevano ridotto a un ammasso informe di libri, e poi si dedicò a scrivere una storia della casa.
Il 1988 portò un peggioramento nella situazione fisica: gli riscontrarono un’embolia polmonare multipla, decaduta in flebite all’arto inferiore destro; un’epatopatia cronica, la vescica neurologica.
Ebbe le cure del caso, vi portò del suo, un vivo spirito di fede. Anno dopo anno, tirò avanti fino al 1996. Gli occorrevano cure e assistenza, impossibili a praticarsi in una casa destinata all’educazione dei giovani. Gli offersero il trasferimento all’infermeria della Casa di Como: l’accettò con riconoscenza, sia pure col dolore del distacco. Vi giunse il 9 giugno, e fu malato con i malati, esempio di fede nell’accettazione della sofferenza; animatore della preghiera.
Un altro grave male fu d’avviso alla fine: un ictus cerebrale con emisindrome sinistra. A chiudergli definitivamente gli occhi, un collasso cardiocircolatorio. Il dolore aveva purificato le inevitabili manchevolezze: al Signore portava il compimento della missione affidatagli. Gesù ha detto, per bocca del profeta Daniele: «Quelli che avranno insegnato a molti la giustizia splenderanno come stelle, per tutta l’eternità». È lecito, confortevole, pensare a don Carlo, maestro di vita a religiosi e a laici, ora, splendido di gloria in Cielo.