Tutto cominciò proprio il 19 Marzo
Don Guanella e San Giuseppe: cenni di una devozione


Tutti i Guanelliani del mondo sanno che San Giuseppe è di casa fra noi.
La nostra storia e buona parte della letteratura guanelliana sono segnate dalla presenza dello Sposo di Maria, padre di Gesù secondo la legge.
Don Guanella era solidamente radicato e affascinato dall’idea della custodia premurosa di San Giuseppe nelle sue vicissitudini personali e ne promosse la devozione fin dagli inizi della fondazione.
Naturalmente la predominanza di San Giuseppe va letta in un contesto globale di vita e di pensiero, altrimenti rischia di apparire come un fungo nell’esperienza del fondatore e come un’appendice nella nostra.
Tutto parte, in don Luigi, dalla straordinaria forza che ha nella sua vita il mistero del Natale, l’Incarnazione del Signore, punto cardine della sua visione teologica eppure stranamente poco sviluppato nella nostra riflessione.
Le citazioni del Fondatore sul mistero di Betlemme e sull’icona della Sacra Famiglia sono innumerabili e giocano un ruolo ispirativo: Giuseppe è l’uomo che obbedisce a una parola, fidandosi più di quella che delle sue evidenze; con sollecitudine porta avanti il suo compito ed ha il privilegio di morire fra le braccia delle creature più amate, così che la morte non è la dura falce che tutto strappa, ma la sorella che accompagna e apre la porta del cielo.
Ne deriva un disegno stimolante per sé e per i suoi: abbracciare la propria missione nell’obbedienza alla voce del Padre, prendendosi cura di Gesù e delle sue cose per tutta la durata dei propri giorni, appoggiati a Maria, la migliore delle creature, che rende bella la nostra vita, fino a quando verrà la morte, per riportarci al Padre.
Fare da padre e fare da madre era ed è tutta la missione dei guanelliani, così che Maria e Giuseppe diventano prototipi di questo impegno di vita e si impongono non solo tra le nostre devozioni, ma soprattutto nel nostro progetto di vita. C’è l’idea di una custodia affidataria della quale rispondiamo, i poveri che non sono nostri e che ci diventano cari come se lo fossero, come se li avessimo partoriti. In un ‘Opera dove la preghiera e il lavoro sono gli strumenti cardine di santicazione e di apostolato, il riferimento al santo del raccoglimento e del lavoro domestico è scontato.
Vi è anche la sfumatura della purezza con cui Giuseppe entrò nella vita di Maria, ulteriore motivo ispirativo per dei consacrati. Come pure la nota della ‘vita semplice’ condotta da Giuseppe nella Sacra Famiglia e proposta anche a noi, una vita non troppo spettacolare, modesta, fuori dai riflettori, fatta di virtù comuni e umane, ma autentiche. Nella letteratura guanelliana va inquadrato l’elemento ‘semplicità’ con cui il Fondatore sintetizza la sua idea di vita religiosa di grande spessore, che ci chiede di essere ‘sacchi di preghiera’ e ‘asini da lavoro’, ma a tinte chiare, senza eccessivi protagonismi, senza squilli di tromba. Come Giuseppe.
Cerchiamo ora di dare un’idea di questa relazione tra don Guanella e San Giuseppe, per quanto possibile ordinata.

DAL BAMBINO LUIGI AL GIOVANE PRETE: DON GUANELLA E SAN GIUSEPPE

Nel presbiterio della chiesa di Fraciscio vi era dipinto un busto di San Giuseppe e papà Lorenzo soleva dire a don Guanella che si trattava del “volto di Carlo Gilardi”, un anziano del paese divenuto leggendario per aver battuto il record della longevità nella piccola parrocchia. Il registro dello stato d’anime di Fraciscio, infatti, lo cita nel 1742 con 108 anni; calcolando che l’atto di morte risulta nel 1749, il Gilardi raggiunse la veneranda età di 115 anni.
Era uno dei ricordi antichi del bambino Guanella relativi al Santo Patriarca: anziano, longevo, vita appartata, poche pretese, gioie semplici...tutto creava già nel mondo immaginario del piccolo l’idea che gli anni, gli incontri e le letture avrebbero poi rifinito col tempo.
Quando don Guanella inizia il catechismo, sempre nella sua Fraciscio, esistono già due giorni del calendario dedicati a San Giuseppe: anzitutto il 19 Marzo, festa del Santo, presente nei martirologi fin dal secolo IX, poi resa universale nel 1480 da papa Sisto IV e quindi di precetto nel 1621 da papa Gregorio XV; in secondo luogo la festa del Patrocinio del Santo, che si celebrava già in molte diocesi, confraternite, ordini religiosi, in date differenti. In molti luoghi esisteva persino una terza festa, quella dello Sposalizio della Vergine con San Giuseppe.
A partire da PIO IX vi era stato un crescendo straordinario di attenzione al Santo. Sotto il suo pontificato, nel 1847, si estese alla Chiesa universale la festa del Patrocinio, si cominciò a invocare San Giuseppe prima dei SS. Pietro e Paolo nelle Litanie, fatto mai accaduto nel passato, e nel 1870 lo si proclamava Patrono della Chiesa universale e lo riconosceva secondo solo a Maria nel potere di intercessione conferendogli il diritto a un culto superiore a quello degli altri Santi.
Tutte queste vicende si sviluppano proprio negli anni dell’infanzia del nostro e fino al suo primo sacerdozio. Già nel Seminario di Sant’Abbondio, lo racconta lui stesso nell’autobiografia, era abbonato a “Il Devoto di San Giuseppe”, una rivista nuova che si iniziò a pubblicare a Modena proprio nel 1863, mentre don Guanella è in seconda classe di filosofia. Il suo rettore di quegli anni, don Angelo Bolzani, era un apostolo entusiasta della devozione a San Giuseppe e questo lasciò certamente un’impronta nell’animo di don Luigi; si pensi che il Bolzani in quegli anni scrisse “Il culto di San Giuseppe nella città e diocesi di Como”, studio che poi venne pubblicato, alla sua morte, sull’altra rivista veronese, l’ “Eco cattolico delle glorie di San Giuseppe”, mentre don Guanella è a Savogno da dove pure inviava corrispondenza alla rivista.
Appena San Giuseppe è proclamato Patrono della Chiesa universale, don Luigi vede bene che anche a Savogno se ne instauri il culto e, qualche mese dopo il solenne pronunciamento papale, nell’Aprile 1871, fa collocare un quadro di San Giuseppe nella ristrutturata chiesa parrocchiale chiedendo e ottenendo dalla Curia il permesso di benedirla lui stesso.
Vi è poi la parentesi piemontese in cui don Guanella entra in contatto con il mondo del Cottolengo e di don Bosco dove la devozione a San Giuseppe è radicata e diffusa. Il Cottolengo ne portava il nome e aveva dedicato a San Giuseppe la famiglia interna della casa che ospitava i Fratini, cioè i ragazzi della strada da proteggere, istruire e avviare a una professione. Don Bosco e l’Oratorio di Valdocco, nella ridda di devozioni offerte forse con una certa esagerazione, davano un posto di rilievo alle pratiche in onore di San Giuseppe, soprattutto fra artigiani e studenti. Senza parlare delle numerose pubblicazioni, tra le Letture Cattoliche, in onore al Santo.
Risalgono agli anni salesiani due lettere preziose nelle quali don Guanella si vota a San Giuseppe per tutta la vita, entrambe indirizzate al Vicario generale della Diocesi di Modena, direttore dell’Eco di San Giuseppe.
La prima la firmano in due, il 1° aprile 1875, un certo don Carlo Pezzotti e don Luigi Guanella, dall’Oratorio di Valdocco:
“I Sacerdoti Pezzotti Don Carlo e Guanella Don Luigi dimoranti nell'Oratorio di San Francesco di Sales in Torino, pieni di fiducia nella protezione di San Giuseppe, implorano dal glorioso Patrono, il primo la guarigione da una grave malattia, ed il secondo il buon esito d'un affare importantissimo di ordine morale.
Sperano poi i suddetti al compimento della grazia di fare a gloria del gran Protettore tutto che l'ingegno e la possibilità sarà per permettere affine di porgerne almeno segno di gratitudine imperitura, ed i favori ottenuti saranno specialmente registrati nel Periodico il Divoto di S. Giuseppe a comune edificazione ed incoraggiamento. Voglia anche la S.V. ajutarci colle sue orazioni e dire a S. Giuseppe che noi vogliamo essere figli suoi sempre divoti in vita e nella morte.”
Quale poi fosse l’accennato “buon esito d’un affare importantissimo di ordine morale” possiamo solo supporlo, ma lo scopriremo in cielo. Certo è che i due promettono “gratitudine imperitura e si professano “figli di San Giuseppe sempre devoti nella vita e nella morte”.
La seconda, ancora più forte e misteriosa, ma davvero allusiva al suo futuro e alla sua missione, fu scritta due mesi dopo, il 5 Giugno dello stesso anno 1875, ma questa volta è solo don Luigi che scrive:
“Scrivendo due righe nel periodico di San Giuseppe, mi par quasi d'impegnare di più il Santo a ottenermi le grazie di cui abbisogno rivolgendomi a lui qui pubblicamente come a colui che per mio protettore speciale ho eletto e in cui confido con tutto l'animo.
In questo momento ho tutto il bisogno che San Giuseppe mi aiuti in certe imprese avviate, dalle quali sarà per dipendere la destinazione della mia vita e la salvezza di molte anime. Mi avvalori il Santo Patrono ed io mi assumo di pubblicare per tutto le sue lodi. Oltrechè per le tante grazie particolari che riguardano il presente mio stato, io sono in gran dovere di pregare S. Giuseppe per la conversione di un gran personaggio il quale se sarà aiutato a dare ancora un passo nella via del ravvedimento arrecherà certamente viva consolazione alla Chiesa Santa.
I devoti del santo Patriarca uniscano le loro orazioni alle mie per conseguire questo gran bene.”
Straordinaria questa relazione personale che si va rafforzando con San Giuseppe eletto a speciale protettore della sua persona e l’accennato “bisogno che San Giuseppe mi aiuti in certe imprese avviate, dalle quali sarà per dipendere la destinazione della mia vita e la salvezza di molte anime.”
 Anche negli anni in cui il nostro torna dall’esperienza salesiana, la chiesa continua ad intervenire frequentemente sul tema, sotto il papa Leone XIII.
Nella sua prima allocuzione al collegio dei Cardinali, era il 1878, pone il suo pontificato sotto “la potentissima protezione di san Giuseppe, celeste Patrono della Chiesa”; nel 1881 affida a san Giuseppe il Giubileo straordinario da iniziarsi il giorno della sua festa; nell’enciclica Quamquam pluries  del 1889 espone tutta la dottrina su san Giuseppe, dai fondamenti della sua dignità fino alla ragione singolare per cui merita di essere proclamato patrono di tutta la Chiesa, modello e avvocato di tutte le famiglie cristiane...
A don Guanella era arrivata, lungo gli anni, tutta la tradizione devozionale sul santo patriarca, sviluppatasi a partire dagli ambienti monastici, benedettini, francescani, serviti, carmelitani e sotto la spinta di santi dalla vasta eco come Santa Brigida di Svezia e San Bernardino di Siena: le pratiche dei Sette dolori e allegrezze di San Giuseppe, il Mese di Marzo con la devozione al suo Cingolo, la dedicazione allo Sposo di Maria di tutti i Mercoledí...
Tra le sue letture don Luigi aveva incontrato San Giuseppe soprattutto negli scritti di Santa Teresa, del Gerson, e nei manuali di spiritualità o di predicazione che riportavano il pensiero di Bernardo di Chiaravalle, Ruperto di Liegi, Bonaventura da Bagnoregio, Dusn Scoto e vari altri pensatori cristiani.
Nelle sue operette spirituali e nei testi per le sue congregazioni San Giuseppe è presente ad ogni passo; conosce anche le tradizioni relative alle sue reliquie venerate qua e là per la penisola, come il bastone fiorito del santo...

DON GUANELLA FONDATORE

Dagli anni di Pianello, col Coppini, nel gruppo iniziale che poi costituirà la Congregazione femminile, non emerge una spiccata devozione al Santo mentre possiamo affermare che la nostra avventura definitiva come Opera don Guanella comincia davvero con San Giuseppe.
Era proprio il 19 Marzo 1885, da Pianello, il giorno in cui don Guanella scrive una delle lettere forse più importanti da noi conservate, che si conclude precisamente con il riferimento al Santo: “Io prego Dio e mi soscrivo poi in questo giorno di S. Giuseppe 1885, ossequentissimo servo, Luigi Sacerdote Guanella”. Fra di noi la lettera è nota col nome di “Resoconto-Programma” ed è un’attenta ricostruzione di tutto il suo cammino fatta al vescovo di Como mons. Pietro Carsana. Cosa era successo?
Don Luigi era a Pianello già da oltre tre anni. Erano abbastanza superate le noie e le relative chiacchiere che giravano per il famoso libro scritto negli anni di Savogno, per la partenza dalla Diocesi e per le vicende del convitto di Traona. Le autorità civili tacevano perchè la Curia, prudentemente, aveva destinato don Guanella fuori della provincia di Sondrio, mettendolo in quella di Como, per cui carabinieri diversi, prefetto diverso, altro pretore, uffici di riferimento totalmente nuovi.
Nel frattempo, altre consorelle si erano aggiunte al gruppo iniziale delle orsoline del Coppini e molte postulanti bussavano per entrare. La Casa di Camlago cominciava ad essere piccola, per cui si faceva spazio in tutti il desiderio di crescere e sviluppare l’opera.
Don Guanella ha molte idee e ne parla coi suoi amici preti, specie col parroco di Traona, don Silvestri, suo compagno di seminario che gli scrive agli inizi di Marzo 1885, placando gli entusiasmi del nostro e ridimensionandoli. Probabilmente vi era anche l’idea di tornare a Traona, nel famoso convento di San Francesco, che era ancora proprietà di don Guanella, sebbene in affitto al Comune; tra l’altro don Silvestri fremeva dal desiderio di lasciare la parrocchia, come poi avvenne l’anno successivo, quando fu destinato a Rovellasca, a oltre 100 km di distanza da Traona.
Su suggerimento del Silvestri, che lo invitava sempre a cautela, don Luigi chiese udienza al vescovo, che lo ricevette il Giovedì 12 Marzo 1885 e ascoltò i suoi progetti. A fine udienza gli chiese di metter per iscritto il suo programma e don Guanella elabora un documento prezioso il giovedì successivo, 19 Marzo, proprio nel giorno di San Giuseppe.
Ragguaglia il Vescovo circa la crescita della Casa di Pianello, accenna all’antica volontà del compianto don Coppini di trasferire l’opera in qualche centro maggiore, esprime il suo desiderio di portarsi a Como o in qualche nucleo importante di Valtellina per aprire una casa sullo stile del Cottolengo e aggiunge: “Ma le suore vorrebbero che io ne assumessi la direzione”. Quindi fa una sintesi del suo percorso fino a quel momento, perchè il Vescovo abbia tutti gli elementi in mano per poter decidere e alle sue mani si affida, con la buona spinta di San Giuseppe.

San Giuseppe a Como (1886)
Nella Casa Madre di Como San Giuseppe prende subito il suo posto come protettore speciale.
Già nella prima organizzazione della Casa e nella struttura interna dei due nascenti istituti, il Fondatore stabilisce l’esistenza di tre famiglie dedicate rispettivamente al Sacro Cuore, all’Immacolata e a San Giuseppe: i Figli e le Figlie del Sacro Cuore sono le famiglie indicate per i soggetti più ferventi e da avviare alla direzione delle opere; i Figli e le Figlie dell’Immacolata sono coloro che nella casa “fanno più da Marta che da Maria”, per usare le parole di don Guanella, cioè quelli addetti ai servizi più materiali; i Figli e le Figlie di San Giuseppe sono dedicati all’assistenza degli anziani, che il Fondatore a più riprese chiama “vecchioni”. Affiora qui la relazione San Giuseppe-anziani che poi si fisserà per sempre e che diverrà paradigmatica nella nostra tradizione.


San Giuseppe a Belgioioso (1895)
Nel 1890 don Guanella aveva inviato Suor Luigia Delpini a questuare per i paesi lombardi e ci si era imbattuti, nel pavese, col buon don Angelo Scotti, parroco di Belgioioso. Qualche anno più tardi costui addivenne a un accordo col Fondatore: voleva che sorgessero in paese delle opere parrocchiali per l’infanzia e per gli anziani. Vi erano due case di proprietà dei Conti melzi D’Eril, a pochi metri dalla Chiesa parrocchiale; con l’aiuto del Parroco e del Vescovo mons. Agostino Riboldi si poterono acquistare e adattare. Erano case dove presumibilmente aveva soggiornato Giuseppe Garibaldi, il famoso generale e patriota, detto “eroe dei due mondi”.
Nel 1895 il Fondatore vi avviava la Pia Casa San Giuseppe, così un Giuseppe ancora più glorioso diventava titolare di quegli edifici.

San Giuseppe a Roma, sul Monte Mario (1903)
Il 4 Ottobre 1903, dopo molte ricerche e tentativi, finalmente i figli di don Guanella mettono piede a Roma, assumendo la responsabilità della Colonia agricola San Giuseppe che si trovava su Via della Balduina, in zona Monte Mario. Subentrano ai figli di don Orione che lasciano l’opera ai nostri.
Che cosa era la Colonia San Giuseppe?
Nel 1901 la Curia romana aveva risposto alla proposta educativa di papa Leone XIII che chiedeva di salvare tanta gioventù pericolante attraverso il ritorno all’agricoltura con metodi innovativi: il luogo lo metteva a disposizione il Capitolo dei Canonici di San Pietro acquistando un terreno di 27 ettari sul Monte Mario e costituendo allo scopo una Commissione detta ‘Opera San Giuseppe’ con a capo mons. Radini Tedeschi e mons. Salvatore Talamo; i giovani li avrebbe forniti e sovvenzionati l’Opera per la Preservazione della Fede nata per fare fronte al dilagare del protestantesimo. Attraverso la raccolta dei Rifiuti e degli stracci, che allora fruttava circa 7000 lire l’anno, si sarebbe ulteriormente sovvenzionata la Colonia che, in un primo momento, era stata affidata agli Eremiti di don Orione.
La Congregazione orionina, a quel tempo, muoveva ancora i primi passi, tra mille stenti di personale e di soldi e già impegnata su più fronti col Vaticano: nel 1900 aveva preso in gestione la Colonia agricola della Petrara, nel viterbese e nel 1901 riceveva appunto da mons. Radini la Colonia di San Giuseppe sul Monte Mario. Come se non bastasse, a distanza di pochi mesi anche mons. Misciattelli, che era cameriere e segretario di Papa Leone XIII, aveva acquistato il terreno attiguo alla Colonia San Giuseppe con relativa Villa, intestandola a Santa Maria del Perpetuo Soccorso e aveva voluto affidarne la conduzione allo stesso don Orione, essendo quest’altra Colonia confinante con la prima. Quindi tre Colonie in poco tempo per gli orionini, con poca gente e molto disorganizzata.
Iniziarono problemi a catena per varie ragioni: l’orionino don Albera, allora direttore delle Colonie romane, viveva un momento di contestazione sottile e di eccessiva autonomia nei confronti del suo fondatore; il vescovo di Tortona, essendo allora la Congregazione di diritto diocesano, non accettava più che don Orione conducesse le case coi chierici e li richiamò tutti nel suo Seminario; gli Eremiti orionini, nati per la preghiera erano di fatto massacrati da un lavoro estenuante con mezzi precari e poca esperienza; la coltivazione dei campi che doveva essere un mezzo era diventato un fine. Ci si aggiunse un bell’incendio il 16 febbraio 1903 che rischiò di devastare la Colonia.
Risultati: mons. Radini infuriato per la conduzione trascurata della Colonia San Giuseppe, mons. Misciattelli urtato per la scarsa resa economica della Colonia Santa Maria, don Orione scoraggiato perché gli arrivavano colpi da ogni lato. Per attutire le tensioni e dare tranquillità si vide costretto a scendere di persona e fissare la sua residenza sul Monte Mario nel Giugno 1903, pochi giorni dopo aver ricevuto da mons. Radini una durissima lettera listata a lutto: “Il Signore ci aperse una nuova via”. Praticamente era il benservito, doveva lasciare la Colonia, visto che nel frattempo i curiali di Roma stavano prendendo accordi con don Guanella.
Presto il nostro Fondatore si sarebbe reso conto di quante sofferenze si era caricato l’amico don Orione, perché si troverà con gli stessi problemi e la stessa solitudine. Ma con l’arrivo alla Colonia di Monte Mario era iniziata la nostra stagione romana. Sarà una stagione sofferta che chiederà anche il sacrificio di un trapianto, all’indomani della morte del Fondatore, per dare vita a quel gioiello che è l’Opera di Via Aurelia Antica, tra le più emblematiche di tutta l’Opera di don Guanella nel mondo. Certamente quella che le ha dato fama mondiale.
Il marchio di fabbrica con cui si iniziava nella Capitale della cristianità era quello di sempre, alla poveraccia: anzi questa volta un po’ peggio…visto che a mantenere l’opera guanelliana ci pensavano i robivecchi di Roma coi loro stracci. E San Giuseppe, ovviamente.

San Giuseppe a Roma, in San Pancrazio (1907)
Dopo i Servi della Carità, arrivavano a Roma anche le Figlie di Santa Maria della Provvidenza: il 2 gennaio 1904 prendevano dimora nella sede dell’Accademia letteraria dell’Arcadia, dietro la Chiesa di San Pietro in Montorio, sul Gianicolo della Città Eterna. Pagando l’affitto, ovviamente.
Era un palazzo nobile e artistico, ma già in lento disfacimento e vi entrarono le prime quattro suore con le prime sei bisognose. Con loro c’era il buon Tonio, un uomo tuttofare della Colonia di Monte Mario: aiutava le suore nell’allestimento del Ricovero e dormiva di notte in quella Villa Montorio che aveva subito molti furti nel tempo in cui era stata senza abitanti.
Furono inizi difficili perché l’opera nuova stentava ad attecchire; il Palazzo degli Arcadi sarebbe stata comunque una sede provvisoria per numerose ragioni, ma soprattutto -come scriveva il guanelliano don Cugnasca in una delle prime Storie della Fondazione- “perché le opere della Provvidenza per prosperare hanno bisogno di casa propria indipendente”. Di fatto nel dicembre 1905 don Guanella avvisava mons. Dante Bartolini, presidente degli Arcadi, che a fine 1906 sarebbe scaduto il triennio di affitto e che non intendeva rinnovarlo, difatti qualche mese prima aveva iniziato a cercare una casa da acquistare per le sue suore.
Una Villa come quella degli Arcadi, con quegli addentellati di nobiltà ricca, strideva con una zona come quella del Montorio allora appartenente alla Parrocchia trasteverina di Santa Dorotea pullulante di miserie di ogni tipo.
Per don Luigi strideva anche con la povertà sobria e meravigliosa delle sue Suore; gli ambienti per lui dovevano aiutare a comunicare lo scopo; le suore erano nel posto sbagliato e non sarebbero rimaste a lungo lì.
Nei primi mesi del 1907, finalmente, acquista l’ex convento carmelitano di San Pancrazio e qual’è la sua prima preoccupazione? San Giuseppe.
Deve installare anche in quella nuova fondazione il culto al suo santo preferito, un antico voto lo lega e la loro trentennale intesa non si è mai incrinata finora.
Ordina due statue di San Giuseppe, una per la Colonia e l’altra per questa nuova sede delle suore; sarebbero state benedette il giorno del Patrocinio del Santo che quell’anno cadeva la domenica 21 Aprile.

San Giuseppe a Roma, fuori Porta Trionfale (1908)
Ma la partita con San Giuseppe è tutta da giocare per don Guanella.
Lui, costruttore di Chiese nuove e restauratore di chiese in rovina, decide di dare fondo alle sue risorse per un Tempio a San Giuseppe nel cuore di Roma. Lo aiuterà il Papa, che di Giuseppe porta il nome e ne è fervente devoto.
Come avvenne la fondazione di San Giuseppe fuori Porta Trionfale.
“L’uomo si agita e Dio lo conduce”, avrebbe detto don Guanella nella sua autobiografia, qualche anno più tardi, per dire che le cose spesso non vanno come uno vuole, ma come dispone la Provvidenza.
Si doveva arrivare a Porta Trionfale qualche anno prima, prima di mettere piede alla Colonia di Monte Mario, perchè fin dai suoi primi sondaggi su Roma don Guanella cercava un luogo per qualche opera che fosse del tutto sua. Non predeva di dover rilevare l’opera di altri e men che meno di subentrare a don Orione!
I suoi giri di perlustrazione erano iniziati in quei sei giorni che precedettero il viaggio in Terra Santa, nel 1902; don Guanella era sceso a Roma con il chiaro intento di affittare o acquistare qualcosa. Lì si sarebbero in seguito sviluppate le sue opere romane. Ne scriveva da Milano l’8 settembre all’amico don Baroni nel Veneto: “A Roma dimoro alcuni giorni per scorgere se la Divina Provvidenza aiuta per l’impianto di una casetta nella capitale del mondo dalla quale parte ogni benedizione sicut in coelo et in terra”.
Partì il 9 settembre da Milano e si fermò a Bologna per riunire alcuni amici della cerchia dei telegrafisti sul suo progetto del Faro in onore di Volta; ne approfittò per fare visita a mons. Respighi, cardinale vicario di Roma che in quei giorni era in vacanza nella sua villa bolognese di Ceretolo. Un incontro breve, ma utile per i suggerimenti ricevuti su come muoversi in Roma.
Finalmente l’11 settembre don Luigi mette piede nell’alma Città e inizia i suoi giri; le prospettive che gli si aprono sono diverse, tutte interessanti, ma nessuna decisiva. Non gli piacque la proposta di Respighi sulla Chiesa degli Angeli Custodi in Via del Tritone, che fu poi demolita negli anni ’30; così pure il terreno a mezzo fabbricato propostogli dai Redentoristi che officiavano da quattro anni nella Chiesa romana di San Gioacchino al quartiere Prati; anche un’agenzia gli fece vedere nella stessa zona un terreno con villino, ma nulla… Una visita agli amici salesiani di Castro Pretorio, oggi via Marsala, lo mise in contatto con don Arturo Conelli, milanese, appena nominato ispettore dei salesiani di Marche-Umbria-Lazio: da lui venne a sapere delle occasioni varie offerte dalla Banca d’Italia, impegnata nella vendita di appezzamenti nella Capitale.
Il primo terreno che don Luigi vide, accompagnato da don Conelli, fu un lotto interessante nella zona di San Lorenzo, precisamente in Via dei Marsi al numero 58: un terreno con vecchi stabili malmessi che il proprietario aveva prima affittato al Ministero dell’interno per realizzarvi le ‘Carceri di transito’, poi dato in uso alle Suore Ausiliatrici del Purgatorio che vi tenevano un’opera per i fanciulli abbandonati. Poi ne era venuta in possesso la Banca d’Italia e don Guanella ne scrive il suo apprezzamento a suor Marcellina il 15 di settembre “mi soddisfa... Par che si possa avere per 10 o poco più mila lire. Domani mi reco alla Banca d'Italia e posdomani pure… Pregate. Vedeste che Patagonia in quella regione che è poco scosta da San Giovanni Laterano, dal Colosseo da Santa Maria Maggiore. Dite a Don Filippo che se ne consoli. Stasera s'avessi avuto un asinello carico di immagini mi faceva amici centinaia di fanciulli seminudi e derelitti”.
Questo era stato il suo primo sguardo sulla capitale: “centinaia di fanciulli seminudi e derelitti”. L’educazione della gioventù era stata la sua passione di prete venticinquenne, a Savogno; poi l’aveva ritrovata a Torino e a Trinità di Mondovì, nei cortili salesiani; si era affannato per aprire una scuola nella sua Valle e a Traona vi era riuscito, dopo molti contrasti, ma fu il dolore tra i più grandi della sua esperienza umana. Ora la Capitale d’Italia e della cristianità lo chiamava lì. Lui lo sentiva. Vi sognava avventura, opportunità immense, imprese al limite delle possibilità: non a caso l’aveva chiamata ‘Patagonia’. Ma San Lorenzo non era per lui.
La Provvidenza volle che finissimo alla Colonia agricola di San Giuseppe degli Stracciaroli, sul Monte Mario, e di lì don Guanella avrebbe mutato il suo punto d’osservazione sulla Capitale, segnando per sempre la zona geografica della missione dei suoi, quasi totalmente dispiegata in quel lembo di Roma Ovest dove sarebbero sorte più tardi le opere di San Pancrazio al Gianicolo, della Val d’Inferno, di Via Aurelia, della Nocetta, di Via Portuense.
E del Trionfale, appunto.
In realtà passarono ben sei anni prima che don Luigi riaprisse le trattative con la Banca d’Italia per l’acquisto, questa volta, di un grosso lotto dell’ex proprietà del prof. Giuseppe Cugnoni, in tutt’altra zona rispetto a San Lorenzo: 7400 mq di terreno a continuazione delle vie Santamaura e Tunisi, a confine con l’allora Vicolo della Balduina, fuori dalla cinta daziaria.
Negli anni della febbre edilizia, 1883-1888, quella zona era esplosa demograficamente: forti emigrazioni regionali soprattutto dalla Toscana, dalla Campania e dall’Emilia avevano invaso quei campi extramurari dell’urbe.
Un gregge senza pastore. Don Guanella ne fece la sua casa.
E venne il giorno di comprare. Era il 1908, precisamente Giovedì 30 Gennaio. Don Guanella usciva da una delle tante udienze private con il Papa che aveva incontrato solo in quel mese ben quattro volte. Pio X accettava l’intestazione della Chiesa dedicata al santo di cui portava il nome; così, lo stesso giorno in cui il Vicario di Cristo aveva sciolto le sue riserve con lui, don Guanella rompeva ogni indugio con la Banca d’Italia: “Il sottoscritto sacerdote Luigi Guanella, residente a Roma, in Via Aurelia, Basilica San Pancrazio, fa domanda a codesta Spettabile Direzione per l’acquisto di terreno fuori Dazio di Via Trionfale…”.
Era un anno durissimo per don Guanella, alle prese con la questione intricata dell’approvazione delle due Congregazioni; tra l’altro c’era cantiere ovunque: ben quattro chiese tutte in costruzione a Vicosoprano in Val Bregaglia, a Roveredo in Svizzera, a Pianello Lario e ora anche la Basilica romana all’orizzonte. Don Luigi si fermò a Roma tutto gennaio e tutto Febbraio, per più di 50 giorni, con l’impegno di firmare l’acquisto e porre in marcia la nuova opera.
Ma doveva tornare a Como perché bisognava prima che il Santo Padre si intestasse la proprietà: lo avrebbe fatto di lì a poco attraverso il procuratore della Santa Sede, l’avvocato Patriarca. Don Guanella doveva anche preparare i progetti da sottoporre all’architetto Aristide Leonori; aveva in mente due modelli precisi: la Chiesa di Sant’Antonio a Porta Volta in Milano, costruita dai suoi amici Francescani, che a sua volta era copia della Chiesa di San Salvatore a Monte delle Croci in Firenze.
Scese di nuovo a Maggio nella capitale, perché sperava nella posa della prima pietra, ma erano nati problemi perché la Banca gli aveva venduto un terreno su cui insistevano oltre 30 famiglie dentro baracche abusive che non volevano sloggiare; tanto meno don Guanella si sarebbe mai permesso di cacciarle, così dovette farlo la Banca e la trattativa fu molto lunga soprattutto con una certa Maria Bianconi che diede filo da torcere per più di due anni.
Di nuovo venne a Roma a fine agosto con l’assillo di iniziare la Chiesa, ma complicazioni senza fine… che ormai lo vedevano corazzato; chiamava a Roma don Bruschi scrivendogli: “Portati qua, ma vieni con fermo coraggio e con corredo di molta pazienza, e rifletti tra via che le fondazioni costano sudor di sangue e tanto saran ferme quanto più son combattute”. Era la sua nozione riassuntiva di tante battaglie: più ci stai male, più farà bene. A tutto.
Ancora una volta risalì triste a Como, ma in ottobre ricevette da Roma una notizia tanto sognata: le sue Suore erano state riconosciute e approvate come Congregazione. Una conferma che non fu giuridica, ma esistenziale perché sentiva che Dio era con lui e la Chiesa ne sigillava la certezza.
A Roma arrivarono per la fondazione del Trionfale le prime Figlie di Santa Maria della Provvidenza e giacché era la Basilica del Papa, bisognava impegnarci le migliori: la scelta cadde su suor Maria Landoni e suor Paolina Bertani, entrambe lombarde, entrambe trentenni; avevano tutto quello che serviva per dare buone radici alla pianticella: fede, età, spirito e grinta.
Il 16 Novembre 1908 si sarebbe dovuto inaugurare una Cappella provvisoria, ma si dovette rimandare per via degli abusivi, molti dei quali sloggiarono solo a Dicembre così che i nostri poterono iniziare ad adattare la stalla, il fienile e un ripostiglio che stavano davanti alle baracche: dovevano approntare una Cappella momentanea, che fu pronta a Marzo 1909 e la gente iniziò a chiamarla ‘Basilichetta’, quindi sarebbero venuti anche l’asilo infantile e l’oratorio festivo, la posa della prima pietra e l’avvio dei lavori.
Al momento della prima Messa di don Guanella nella ‘Basilichetta’ manca il campanello da suonare alla consacrazione; unica possibilità la vicina scuderia e un animale consenziente. Si ripeteva l’incanto della notte di Betlemme, quando non c’era niente e c’era tutto.
Ormai la Chiesa romana era croce e delizia di don Luigi che la chiamava “la piccola cattedrale”; in una lettera a don Costantino Guanella, suo nipote, scriveva: “Volgi spesso uno guardo pietoso ai nostri cari morti e pensiamo che abbiamo a morir tutti, ed io presto perché sono vecchio ormai, ma prima vorrei fare la Chiesa e Casa desiderati tanto dal Santo Padre in Via Trionfale”.
Morire sì, ma prima…San Giuseppe!
Quando don Guanella si accinse a costruire la Chiesa del Trionfale già conosceva Roma da oltre vent’anni e la vedeva ogni volta più grande, più popolata; allo stesso tempo gli appariva sempre più povera e allo sbando, culturalmente, socialmente e anche religiosamente.
Di fatto se all’indomani della sua proclamazione a Capitale contava 244.000 abitanti, negli anni in cui acquista il terreno ai Prati di Castello, la popolazione dell’urbe è già più che raddoppiata fino ai 532.000. Aumento dovuto alla natalità e all’immigrazione: da tutte le regioni si puntava a Roma e arrivavano funzionari, impiegati, muratori, fornai, autisti, commercianti; ma anche gli uomini della campagna tentavano il salto, il colpo di fortuna. Non mancavano anche i nobili, i benestanti, i professionisti sui quali il richiamo della ‘capitale’ esercitava una forte suggestione.
Si parla di ‘febbre edilizia’ in tutti i libri di storia: uno degli affari più redditizi del nuovo Regno d’Italia fu certamente quello di ‘ingrandire Roma’ e la fisionomia dell’urbe cambiò molto al di là di ogni previsione; nuovi quartieri sorsero in pochi anni, spesso privi di servizi. Ai 17 quartieri segnalati nel censimento del 1901 se ne aggiunsero in quegli anni altri 15, tra cui il Trionfale, che di lì a poco avrebbero assorbito tutto lo sviluppo della città. Economicamente Roma si sviluppò in modo anomalo perché mentre tutte le città d’Europa divennero grandi grazie all’industrializzazione, Roma ne restò sempre carente; si abbandonava l’agricoltura e ci si metteva nei campi del commercio, dell’attività di accoglienza dei turisti e dei pellegrini, nel piccolo artigianato, negli ospedali, nelle concerie e soprattutto nella macchina amministrativa.
La situazione abitativa era precaria; immigrati delle varie regioni vivevano per lo più in baracche o in case popolari, non meno di 12 persone di più famiglie riunite in case di magari tre stanze. Case senz’ordine, umide, senza luce e senza aria, su strade strette, non ancora selciate, piene di fango.
Lavoravano gli uomini e anche le donne, con conseguenti problemi di moralità e di scompagine delle famiglie; bambini lasciati sulle strade, anziani trascurati, disabili vaganti e fatti scherno dei piccoli bulli o degli ubriachi. Sì, uno dei problemi più consistenti era l’alcool: il vino rappresentava un simbolo. Chi beveva sarebbe stato più forte ad affrontare le prove della vita, donne e bambini compresi e l’alcoolismo era favorito dalla denutrizione e dalla malnutrizione.
Qualche anno prima, nel 1904, il Papa Pio X aveva indetto la Visita Pastorale alla città, afflitta dal male della massoneria infiltrata nelle pubbliche amministrazioni, servita da un clero scadente e in un fermento ingovernabile di presenze, di arrivi, di partenze. C’era da riprendere in mano la predicazione e la catechesi molto trascurate e da ridare un’anima ad una pastorale sacramentale molto sciatta. La città fu riorganizzata attraverso una vera rivoluzione: si soppressero 15 parrocchie del centro storico e se ne crearono 16 nella cinta extra-daziaria. Il numero rimaneva quasi invariato, da 58 a 59, ma nella sostanza tutto cambiava: con lungimiranza Pio X investiva personale e risorse economiche nella periferia che era quasi terra di missione.
Tra le nuove Parrocchie sarebbe stata annoverata anche quella di San Giuseppe a Porta Trionfale in cui sarebbero state trasferite le rendite dell’ex parrocchia di San Marcello, soppressa.
Don Guanella, installato a Roma, poteva finalmente a mantenere la sua promessa: costruire un Tempio allo Sposo di Maria, anzi un tempio al suo Transito. Sbagliano coloro che sorvolano su questo particolare, perchè lo stesso fondatore voleva che il titolo fosse Chiesa del Transito di San Giuseppe, per cogliere, della vita del Santo Patriarca il mistero della sua morte, dal quale svilupperà il suo ultimo dono d’more alla Chiesa e alla nostra Famiglia guanelliana: la Pia Unione del Transito di San Giuseppe con la Santa Crociata di preghiera per i moribondi.
Arrivò il giorno fatidico della posa della prima pietra per il suo San Giuseppe, la domenica 6 Giugno del 1909. Lasciamone il racconto al Bollettino dell’Opera “La divina Provvidenza”:
“La cerimonia, come annunziammo, ebbe luogo ieri sera domenica 6 Giugno alle 18,30. Molta folla era radunata nel vasto prato che circonda il padiglione provvisorio, e nell’attesa era rallegrata dallo scelto programma eseguito dal concerto di Vigna Pia. Poco dopo le 18 giunsero il cardinal Cassetta che doveva benedire la pietra, mons. O’Connel, arcivescovo di Boston, padrino della cerimonia e mons. Faberi segretario del Vicariato, in rappresentanza del Cardinal Vicario. Gli alunni dell’almo Collegio Capranica, diretti dal cerimoniere pontificio mons. Carinci, servivano alla cerimonia.
Erano pure presenti mons. Valbonesi vescovo titolare di Menfi, mons. Caccia, deputato del comitato delle Signore per l’ospizio dei deficienti di San Pancrazio, mons. Bianchi, il conte Macchi, mons. Respighi, mons. Giobbe, mons. Bisciotti, mons. Vattano, mons. Lazzeri, il parroco del Rosario, il Rev. Fantini, il prof. Carozzi, diversi sacerdoti Servi della Carità in rappresentanza delle Case di Como e di Milano, e molti altri distinti signori. Il Cardinale rivestì i sacri paramenti nella cappella e quindi si avviò processionalmente verso il luogo stabilito per la posa della pietra; ivi era preparato il grosso blocco di travertino che doveva essere benedetto. Dopo le prime preci venne firmata dal Cardinale e dagli altri prelati presenti la pergamena, che venne poi racchiusa insieme ad alcune medaglie in una cassetta di piombo che venne poi calata nell’apposito scavo praticato dentro la pietra. Quindi il Cardinale stesso chiuse con un po’ di gesso l’apertura dello scavo, segnò le croci sulla superficie superiore e sulle quattro laterali della pietra, la benedisse e si avviò processionalmente a fare il giro tracciato per le fondamenta, mentre gli operai agli ordini dell’ing. Aristide Leonori, coadiuvati dal fratello Pio, calavano il pesante blocco di marmo nella fossa a tal uopo scavato e la ricoprivano tosto con calce. Terminata la processione, il Cardinale tornò al luogo della benedizione e, dopo recitate altre preghiere e cantato l’inno «Veni Creator», fece ritorno alla Cappella dove impartiva la benedizione al popolo che la gremiva.
La cerimonia, favorita dal tempo bellissimo e non troppo caldo, non poteva meglio riuscire. Il popolo festante attese all’uscita il cardinale e l’arcivescovo di Boston e li salutò con applausi.
Ora ci auguriamo che presto la chiesa di San Giuseppe possa sorgere nelle eleganti linee nelle quali l’ha disegnata il cavalier Leonori, che ha messo in quest’opera non solo tutto il suo valore d’artista, ma anche tutto lo slancio del suo spirito di fede e di carità, e che l’opera audace intrapresa da don Guanella col concorso dei buoni, ottenga generosa corrispondenza, e la carità cristiana abbia qui in Roma col tempio di San Giuseppe al quartiere Trionfale una nuova solenne affermazione.”
E la Chiesa sorse, secondo i disegni di Aristide Leonori, con le superbe colonne di Baveno, con le maestose porte che furono del Duomo di Milano, con le decorazioni necessarie. Tre anni di lavoro e di affanni ma San Giuseppe aveva la sua Chiesa nella capitale. Veniva inaugurata il 19 marzo del 1912.
San Giuseppe era stato onorato come promesso, nel lontano 1875, dal giovane prete Guanella, allora residente nell’oratorio di Valdocco.
“In questo momento ho tutto il bisogno che San Giuseppe mi aiuti in certe imprese avviate, dalle quali sarà per dipendere la destinazione della mia vita e la salvezza di molte anime. Mi avvalori il Santo Patrono ed io mi assumo di pubblicare per tutto le sue lodi.”
Le aveva davvero pubblicate dovunque le lodi del suo San Giuseppe.
Il piccolo montanaro fu sempre un uomo di parola.

padre Fabio Pallotta, guanelliano


Santiago de Compostela, 19 marzo 2020
150º della proclamazione di san Giuseppe a Patrono della Chiesa