Le nostre origini
L’ultimo atto di amore al Sacro Cuore
La nostra Famiglia Guanelliana ha una sua ‘Festa Patronale’ ed è il Sacro Cuore di Gesù, per volontà del Fondatore. Solo il titolo, per ognuno di noi, è un sussulto dell’anima perché ci riporta ai primi desideri del Fondatore. Ci fu un tempo in cui il Sacro Cuore era tutto: nome e realtà, progetto e protezione, titolo di riconoscimento. Siamo stati, almeno all’alba della nostra vicenda i Figli e le Figlie del Sacro Cuore; e sentiamo che il nome nuovo con cui il mondo ci conosce è uno sviluppo di quello iniziale. Di fatto don Guanella inizia la costruzione della sua prima Chiesa col Sacro Cuore di Como e muore avendo nell’anima quella stessa Chiesa.
Il suo Santuario era già costruito e inaugurato da oltre vent’anni quando nel 1913 don Guanella decise di ampliarlo e renderlo artisticamente più dignitoso, oltre che più fruibile dai pellegrini: sognava un vero e proprio ‘luogo dello spirito’ che fosse casa dei cercatori di Dio. L’idea era maturata qualche mese prima; aveva avuto la fortuna di incontrare a Roma, in casa dell’architetto Aristide Leonori, suo amico, il padre Francescano che era Commissario di Terra Santa a Washington, dove il Leonori aveva suggestivamente realizzato una riproduzione fedele dei Luoghi Santi di Palestina. Entrambi lo invitarono a visitare il Mount St. Sepulchre Franciscan Monastery, nel quartiere Brookland di Washington, in occasione del viaggio che di lì a poco don Luigi avrebbe intrapreso verso gli Stati Uniti, per le sue fondazioni americane.
Ne rimase folgorato, soprattutto per l’affluenza, e pensò subito alla sua Casa Madre che avrebbe potuto diventare méta di pellegrinaggi, uscendo dalla sua natura sottodimensionata ed prevalentemente locale. Al ritorno era euforico e decise di realizzare a Como l’idea vista in America; aveva tanti motivi, non ultimo la memoria perenne dei primi figli e figlie morti in gran numero e in giovanissima età, sul campo della carità. Con un termine oggi discutibile, ma teologicamente splendido, amava chiamarli ‘vittime’ di fondazione. Solo un monumento alla Vittima del Calvario avrebbe reso il significato pieno della loro offerta, altrimenti incomprensibile e ingiusta. Il 24 Luglio del 1913, bagnata da un violento temporale, fu benedetta e collocata la prima pietra dell’ampliamento per la riproduzione dei Luoghi Santi nel Santuario di Como.
Nella primavera del 1915 scriveva un articolo su ‘La Divina Provvidenza’: “Nell’entrante Maggio si ergerà il monumento benedetto del Santo Sepolcro e del Calvario; e sarà altare di supplica al Cuor di Gesù… Ci disporremo pertanto ad una funzione speciale e… preghiamo il Cuore santo di Gesù che abbia ad essere inaugurazione pia e solenne…”. Fu il suo ultimo articolo; don Luigi non avrebbe mai più scritto sul suo amato Bollettino. E quel desiderio di benedire e inaugurare il santuario nella Festa del Sacro Cuore 1915 non si potè celebrare perché il 24 Maggio l’Italia entrava in guerra contro il blocco austroungarico. Dovette rassegnarsi e rimandare all’anno seguente, il 1916, nutrendo la speranza di vedere ‘quel giorno’. Infatti due settimane dopo, il 10 Giugno 1915, vigilia del Sacro Cuore, ne scriveva all’amico architetto Leonori:
“Carissimo Sig. Commendatore,
siamo alla vigilia del Sacro Cuore festa nostra che nel venturo anno l'aspettiamo di solennizzare a compimento del nostro caro Santuario come tanti desideriamo.
I lavori del S. Calvario e del S. Sepolcro progrediscono assai ed attendono in Luglio sua preziosa visita… L'ora presente è grigia e tiene in angustie tutti per il durare della guerra.
Le sono in Domino affez.mo suo Sac. L. Guanella”
Praticamente il Santuario era il suo testamento: lo lasciava in eredità ai suoi figli che avrebbero potuto entrarvi a celebrare per la prima volta nell’Ottobre 1915, per piangere il Padre, in occasione della sua morte.
A me pare che la Festa del Sacro Cuore possa essere l’occasione buona per affrontare una meditazione sulle nostre origini: in altre parole chiederci se don Luigi con i suoi compagni e compagne della prima ora hanno qualcosa da dirci riguardo al nostro modo di vivere il carisma e la missione. Come è possibile ricavare elementi normativi per le nostre attuali comunità del terzo millennio da atteggiamenti e stili di comunità molto differenti sia tra loro che rispetto a noi? Che può significare per noi guardare alla loro esperienza?
Argomento vastissimo, che meriterebbe un libro, con puntualità storica e con approfondimenti opportuni. Preferisco rispondere in modo sintetico alle domande che un tema così grande evoca al primo impatto:
- Quali sono queste comunità delle origini?
- Si tratta di comunità senza problemi?
- Come si presentavano?
- In che modo possono essere un modello di riferimento?
- Come evangelizzavano, stando al tema del prossimo Capitolo generale?
- Quale relazione si intravede tra la loro compattezza interna e l’evangelizzazione che realizzavano?
Di che parliamo quando diciamo: ‘le nostre origini’?
Con l’espressione “le nostre origini” alludiamo, in senso stretto, alla vita del Fondatore nella Casa Madre di Como con i primi confratelli e consorelle, cioè alle comunità fondate tra gli anni 1886 e 1915, aventi per membri la prima generazione di confratelli e consorelle.
Naturalmente anche la vita delle nostre due Congregazioni nell’arco di anni che va dal 1915 fino al 1970 circa fu marcata dalla presenza di fratelli e sorelle che erano entrati vivente il Fondatore, cresciuti con lui e da lui inseriti nella missione guanelliana, ma questo periodo potrà essere considerato “delle origini” forse tra un secolo, in un senso più esteso.
Quali e quante sono le comunità delle origini, aperte prima della morte di don Guanella? Potremmo redigere un elenco preciso, ma bisognerebbe fare molti distinguo perché alcune durarono solo qualche anno, altre si trasformarono, altre nacquero femminili e poi si svilupparono maschili o viceversa, altre ancora non erano vere e proprie comunità, poiché si trattava magari di un solo prete pastoralmente attento ad una chiesa o di una sola suora in servizio a qualche asilo…
Per offrire uno sguardo ‘riassuntivo’ le comunità delle Figlie di Santa Maria in quel trentennio di fondazione 1886-1915 furono poco più di una trentina e quelle dei Servi della Carità una decina.
Naturalmente spicca la Casa Madre di via Tomaso Grossi a Como, come casa in cui vive e agisce il Fondatore e che anche le consorelle considerarono sempre, nella loro storia, come l’origine effettiva di tutto. Certo, Pianello esisteva già, ma fu sempre letta come la base di lancio della Congregazione e poi vi fu Lora come Casa Madre giuridica, ma la Casa Divina Provvidenza di Como è da sempre e per tutti il cuore reale dell’Opera di don Luigi. Basti pensare che la stessa Suor Marcellina -nonostante i grandi conflitti che questo causò- non volle mai lasciare via Tomaso Grossi e vi restò anche dopo la morte di don Guanella.
Partendo da Como si descrive un arco geografico che tocca, in sequenza, la Lombardia, la Svizzera, il Veneto, il Lazio, l’Emilia Romagna, gli Stati Uniti d’America, la Calabria. Praticamente: l’Italia al nord al centro e al sud, la zona oltre alpina in territorio svizzero e l’approdo in terra americana. Fallimento totale per le opere delle Marche e desiderio irrealizzato l’opera in Terra Santa.
Sotto un profilo sociologico vi era una varietà notevole, trattandosi di grandi città come Como, Milano, Roma e Chicago e anche di centri medi o di piccoli paesi di montagna e di pianura; culturalmente va registrata la presenza in zone molto diverse tra loro: la Valtellina da un lato con la sua economia di montagna, dall’altro la pianura lombarda in via di sviluppo industriale, tutta la zona agricola del Polesine e del Ferrarese, l’impatto difficile con la Milano di fine Ottocento, l’immensa città di Roma in cantiere, la lontana e originale Calabria di inizio Novecento, la già ricca e caratteristica Svizzera, la sfida americana, con una società già molto diversa dalla nostra, a taglia massificata: tutto quello che accadeva allora in America aveva già grandi numeri. Giuridicamente si trattava di avere a che fare con circa 50 amministrazioni comunali diverse e quasi 20 curie vescovili.
Anche il panorama di missione era variegato essendovi asili, scuole d’istruzione e professionali, tipografie, ricoveri per anziani, case per ‘buoni figli’, colonie agricole, parrocchie, cappellanie, oratori, doposcuola, assistenza agli emigrati, case per orfani, ricovero di sacerdoti… In prevalenza si trattava di un popolo di ragazzi e giovani, specie per le Suore (si pensi che nel 1912 già don Mazzucchi censiva 47 asili!), ma anche di molti anziani e disabili e quasi sempre, almeno per i Servi della Carità, le case dei poveri erano affiancate da un centro pastorale, parrocchia o cappellania, nel senso che non si concepiva allora l’assistenza o l’educazione isolata da un contesto pastorale, con buona pace di tutti coloro che da sempre attorno all’attività pastorale tout-court arricciano il naso come si trattasse di un’eccezione da tollerare, di una svista o di un fuori programma.
Quanto alle risorse umane, altro capitolo interessante. Anzitutto si tratta di un popolo di ragazzi e ragazze, la cui età media si aggira sui 29-30 anni e sarebbe ancora più bassa se non vi fossero alcuni entrati in età già adulta. La provenienza molto varia: in maggioranza assoluta i lombardi; alcuni mandati via da altri istituti o dai seminari diocesani; altri arrivati su presentazione di preti amici; qualcuno cresciuto in casa e poi maturato come religioso. In gran parte è gente dalla cultura medio bassa e con un retroterra povero, salvo pochissime eccezioni; molti casi di analfabetismo e anche qualche caso di persone con difetti e menomazioni fisiche; numerosi casi di ragazzi e ragazze malaticci già al loro ingresso nell’Opera.
Questo è ciò che dobbiamo intendere quando parliamo di ‘origini’: la vita messa in circolo dal Fondatore e dai suoi primi compagni, Servi e Figlie. Un panorama vario, articolato, per nulla monolitico e difficilmente incasellabile; tanto che la stessa Curia romana, quando tratterà i quattro tentativi di approvazione delle due Congregazioni, farà notare l’anomalia di una pianta troppo estesa, con radici molto delicate e fragili.
Che cosa concludere da un primo sguardo di questo tipo?
Risalta l’enorme, inspiegabile vivacità delle nostre origini che, in meno di trent’anni si erano imposte alla scena ecclesiale nazionale e avevano iniziato la ramificazione all’estero. Si tratta di una diffusione rapida e improvvisa, che non tiene conto della preparazione e dei requisiti minimi; da una comunità se ne forma un’altra, in moto continuo e accelerato. Vi è creatività, gioia, entusiasmo, sacrificio indescrivibile: due Congregazioni veramente in stato di evangelizzazione. Don Guanella parlava di ‘fiducia nella Provvidenza’; a leggere oggi quella storia dobbiamo dire che ci fu rischio e quasi azzardo, sicuramente sbilanciamento.
Una seconda valutazione riguarda la varietà. Non è corretto parlare di ‘una’ forma, perché carisma, spirito e missione dell’Opera si incarnarono così rapidamente e così estesamente che semplificare i dati è un po’ pericoloso. Si pensi solo alla divisione linguistica che ne nacque, quando i dialetti in Italia erano vere e proprie lingue: lombardo, romano, calabrese, veneto, emiliano, marchigiano…inglese!
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