A venticinque anni dalla morte di padre Antonio Ronchi, ne rimane vivo il ricordo e la venerazione.
Visse una straordinaria avventura missionaria sognata fin dall’adolescenza
di p. Alfonso Martínez Herguedas
Nel 2021 mi sono recato la prima volta nelle terre del Sud del Cile, nella regione di Aysén, cuore della Patagonia cilena, e ho avuto la fortuna di visitare i luoghi dove ha vissuto padre Antonio Ronchi, di pregare sulla sua tomba a forma di nave e accanto a una sua statua alta quattro metri. Laggiù a Puerto Aysén, tra canali e montagne, egli la fa da padrone con la sua talare, la sua casacca, una grande croce tra le mani e un mezzo sorriso sulle labbra: imponente, con le sembianze marcate dal suo impegno.
Tra la gente di Coyhaique, la città più importante della regione, dove noi guanelliani siamo presenti da molti anni, tra i tanti che ricordano questo “cura rasca” («prete povero», come chiamava se stesso) con grande venerazione e riconoscenza, molti conservano anche la sua foto e si rivolgono fiduciosamente a lui in preghiera. Una residenza per anziani, intestata al suo nome, è gestita da più di trent’anni dal gruppo dei cooperatori guanelliani di Coyhaique, che si è costituito in associazione civile.
Di lui sono state scritte due biografie e sul motore di ricerca di YouTube si trovano alcuni video che illustrano la sua opera, anche col contributo di un recital dedicatogli da un valente compositore e chitarrista del luogo, eseguito per la prima volta nella cattedrale di Coyhaique.
Come ogni persona impavida e ricca di ideali, la sua era una figura controversa: per alcuni un santo, per altri un lupo solitario della steppa. Relativizzò la vita nella comunità religiosa; del resto è noto che non è sempre facile convivere con i santi.
Diciassettenne lasciò Cinisello Balsamo, cittadina in provincia di Milano dove era nato il 3 febbraio 1930, ed entrò tra i guanelliani. Giovane sacerdote, il 22 agosto 1960, salpò da Genova diretto in Cile, realizzando così il desiderio espresso da adolescente: «Andrò dovunque mi manderanno; ma dentro di me vorrei essere missionario nel luogo più difficile che esista, dove tutto è ancora da fare».
Persona salda nella fede, ma anche nelle sue personali convinzioni; dotato di grande resistenza fisica, capì subito i quattro bisogni fondamentali di quegli abitanti, segnati da abbandono religioso, mancanza di cultura, carenza di risorse alimentari ed economiche, isolamento sociale. Cercò di rispondervi costruendo chiese, scuole, fornendo cibo, creando fonti di risorse e istituendo stazioni radiofoniche e televisive, in una parola: portando “pane e Signore” secondo il noto programma di san Luigi Guanella. Restano come testimonianze le bellissime chiese, da lui costruite in varie località, e le scuole che continuano la loro attività didattica.
I generi alimentari che otteneva dal governo cileno, ma anche dagli Stati Uniti o dall’Unione Europea e dall’Argentina, arrivavano per mare. Egli li distribuiva in cambio di lavoro, convinto che dare tutto gratis rendesse le persone pigre e passive, sostenitore del famoso adagio di non regalare il pesce ma insegnare a pescare. È sua anche l’iniziativa di regalare a ogni famiglia una mucca che, quando partoriva il vitello, passava a un’altra famiglia affinché potesse fare la stessa cosa, coprendo così almeno in parte le esigenze di cibo.
Percorse instancabilmente la regione che si stava popolando di immigrati e coloni provenienti da varie località del Cile e da altri paesi, attraversando luoghi molto freddi e piovosi, dove la neve appariva frequentemente e, nelle notti invernali, la temperatura scendeva a quindici gradi sotto lo zero. Quasi inesistenti erano le strade asfaltate e molti spostamenti dovevano essere effettuati a cavallo o a dorso di mulo, guadando fiumi pericolosi nei mesi di disgelo; a tal fine riuscì a costruire ponti per evitare incidenti mortali.
Abitualmente si recava su piccole imbarcazioni nelle numerose isole del suo territorio missionario, con grossi rischi quando il mare era agitato. Anche le grandi distanze tra le piccole città lo impegnavano a viaggi estenuanti più volte all’anno.
Dovunque arrivasse, gli abitanti gli aprivano le case con gioia, facendo a gara per offrirgli un pezzo di pane, una bevanda di mate e un letto, come a un uomo di Dio, con quella fede propria delle persone semplici che sanno essere accoglienti. In una settimana preparava ai sacramenti del battesimo, della comunione e del matrimonio quanti lo volevano.
Per la sua azione missionaria fu fondamentale l’installazione di più di trenta stazioni radio, ognuna con un proprio comitato, alcune delle quali trasmettono oggi programmi televisivi, riuscendo così a creare comunicazione fra le popolazioni. Oltre che un ottimo mezzo di evangelizzazione, facevano compagnia, soprattutto attraverso la musica, e trasmettevano anche messaggi di utilità sociale. Le chiamò con l’acronimo MADRIPRO (Radio Madre della divina Provvidenza).
Per il periodo delle vacanze estive organizzava missioni con i professori e gli studenti dell’Università Cattolica di Santiago, con diverse scuole di congregazioni religiose, (una delle più attive era la scuola di San Viator de Renca) e con diverse parrocchie della capitale. Questi gruppi durante l’anno scolastico si riunivano periodicamente per prepararsi alla missione e aiutarlo a evangelizzare e a realizzare progetti di promozione umana.
Morì alle ore 22 del 17 dicembre del 1997 nell’ospedale dell’Università Cattolica di Santiago del Cile. In uno dei video su YouTube, lo si sente cantare questa canzone:
«Caminar, caminar,
nunca para atrás mirar,
siempre avanzar,
caminar hacia ti, oh Dios.
Y llevar en el alma
el deseo de triunfar;
siempre sonreír
y olvidar que hubo que partir».
(Camminare, camminare, non voltarsi mai indietro, avanzare sempre, camminare verso di te, o Dio. E portare nell’anima il desiderio di trionfare; sorridere sempre e dimenticare che dovemmo partire).