La solitudine, come un morso di una tarantola, a volte, ci inquieta e ci fa perdere la pace. Nella giovane età, ma, forse vale per ogni stagione della vita, può capitare di sentire questo morso come uno svuotamento del cuore. Si attendono persone amiche per riscaldare le fredde nebbie dei nostri sentimenti, invece esse si fanno aspettare; ci sono dei momenti in cui vorresti gridare le tue conquiste, ma nessuno ha voglia di ascoltarti. E così, l’altalena delle sensazioni ciondola dall’albero dei giorni, alternando, nel suo andirivieni, zone di ombra e di luce, il sapore dolce della felicità e quello acre della noia. 

Scriveva don Guanella che «l’uomo, socievole per natura, ha bisogno di versare il proprio cuore nel cuore di coloro che gli sono fratelli per sangue o per elezione, di sentirne la voce, di scambiare con essi le idee e gli affetti, di dare e di riceverne consiglio e aiuto nelle varie situazioni della vita». Questo bisogno fondamentale della vita dell’uomo è stato istituito anche da san Francesco di Assisi il quale nella sua regola fissa, tra i compiti da distribuire nella vita comune, anche il ruolo della «mamma»: un frate con l’ufficio di consolare i fratelli nei momenti di difficoltà e di sconforto. Qualche volta, nel tuo entusiasmo per l’amicizia ti trovi a volare sull’altalena del dare e del ricevere, ma vorresti che gli amici si fermassero solo nel momento di dare e questo nella direzione delle tue aspettative e non nella prospettiva della tua crescita personale. Se l’amicizia non è capace di offrire la parte migliore del suo cuore per amare gli altri, è solo un’illusione di amicizia, destinata così ad essere «morsa» dalla solitudine, perché non sarebbe altro che un egoismo verniciato di amicizia.  

Però è anche vero che gli «egoisti sono i soli tra i nostri amici per i quali noi nutriamo un’amicizia disinteressata». Vogliamo non tanto penetrare i sentimenti dell’egoista – basterebbe guardare con animo sincero molti motivi delle nostre azioni per diventare maestri in materia – ma vorrei suggerirvi di imparare l’arte di amare e di pensare che la capacità di amare è l’elemento che ci fa creature, generate a «immagine e somiglianza» di Dio. Se noi troviamo in Dio il punto di arrivo di tutto il nostro amore e nelle cose create uno strumento per arrivare a Dio, è solo nelle persone che scopriamo «la via di partecipazione» al grande valore che è Dio stesso. In questo valore, per il quale vale la pena di consacrare le nostre energie, troviamo il modello della socialità e il dono per aiutarci a crescere. In Dio incontriamo infatti la socialità, poichè Dio non è solitudine, ma comunione di persone, e cogliamo la dimensione esatta dell’amore dal momento che Giovanni, l’apostolo, dà la definizione di Dio come amore. 

L’amore è un potere attivo che Dio ha concesso a noi, è un potere che abbatte le pareti della separazione e costruisce i ponti della comunione. L’amore, ad imitazione di Dio, ci, fa superare il senso dell’isolamento, ci fa tessuto di comunione, permettendoci di mantenere la nostra personalità, anzi, l’aiuta a crescere. Troppe volte noi abbiamo la concezione dell’amore come un «perdersi irrimediabilmente» nell’altro. Siamo abituati a guardare il buio del solco, nel quale marcisce il seme, e non abbiamo nè fiducia e nè speranza per allungare il nostro sguardo verso il germoglio, il fiore, il frutto che deriverà da quel seme. Il dono non è mai una rinuncia, ma un investimento di fecondità. L’amicizia e l’amore, che la sorregge, sono elementi attivi e non passivi. Non possiamo coniugare il verbo “amare” in negativo, quasi fossimo privati di un bene, sdrucciolando sulla china tenebrosa del sacrificio. Interpretando ogni atto di amore come una privazione corriamo il rischio di vivere la nostra vita cristiana con l’animo di un commerciante che si vede spogliato di tutto senza alcun guadagno. Solo «la gente arida sente il dare come un impoverimento» (Erich Fromm). 

L’ottimismo dei santi è capace di altre valutazioni. Scrive san Francesco di Sales: «La carità spande in tutta l’anima le sue soavi dolcezze, rendendola tutta bella, tutta gradita e amabile alla bontà divina; così se l’anima fosse un regno avente lo Spirito Santo per sovrano, la carità ne sarebbe regina..., e se l’anima fosse una regina, sposa del gran Re del cielo, sarebbe la corona che ne abbellirebbe regalmente il capo, se l’anima, con il suo corpo, fosse un piccolo mondo, la carità rispetto ad esso sarebbe come il sole che tutto adorna, riscalda e vivifica». Ecco allora che la carità ha un interesse attivo per tutta la vita, è un amore provvidente, come quello del Padre, a favore della vita e della crescita di tutto ciò che amiamo nella scia della volontà di Dio. Là dove manca passione ed interesse non c’è amore. Per questo don Guanella diceva: «Fermarsi non si può, finché ci sono dei poveri da soccorrere». Un autore moderno per spiegare che l’amore è premura, responsabilità, rispetto e conoscenza utilizza il racconto di Giona descritto dalla Bibbia. Dio dice a Giona di andare nella città di Ninive ad avvisare gli abitanti che, se non si pentiranno dei loro peccati, essi saranno puniti. Giona è un uomo «dotato di un forte senso dell’ordine e della legalità, ma privo di amore». Nel suo tentativo di sottrarsi al valore di Dio si ritrova dentro la balena che non è altro che il simbolo dello stato di «isolamento e di prigionia» nei quali la sua mancanza di amore e di solidarietà lo hanno portato. 

Ma come Dio lo salva? Egli si mette in cammino per Ninive, gli abitanti si pentono e Dio perdona, abbandonando l’idea di distruggere la città. Ma Giona è «deluso e amareggiato», lui voleva fare «giustizia», senza alcuna pietà, e allora pregò così: «Signore, già prima di partire da casa, lo dicevo che sarebbe andata a finire in questo modo. Ecco perché ho cercato fuggire verso Tarsis. Lo sapevo che sei un Dio misericordioso e buono, molto paziente e benevolo, pronto a tornare sulle tue decisioni e a non punire». Poi, Giona va in periferia della città e si mette sotto l’ombra di un ricino, ma la pianta secca e allora lui si lamenta con Dio, che gli risponde: «Ti lamenti per una pianta per la quale tu non hai lavorato e io non dovrei aver pietà di una città, nella quale vivono più di centoventimila abitanti, che non sanno distinguere la mano destra da quella sinistra»? Dio vuol far capire a Giona che l’essenza dell’amore non è l’utilità che ne deriva, ma è il «lavorare», per far crescere qualcosa, e che il lavoro e l’amore sono inseparabili. «Si ama ciò per cui si lavora e si lavora per ciò che si ama». Se non si ama Cristo, è impossibile ritrovare la sua immagine nei poveri, se non si amano i poveri e non si lavora al loro servizio, e l’impossibile trovare la via che porta a Cristo. 

Vi saluto con tanto affetto e vi auguro una buona Pasqua di Resurrezione. 

Don Mario Carrera