Vivere da poveri per i poveri

Si chiama Patto delle catacombe. È il desiderio di vivere radicalmente il Vangelo fatto proprio da vescovi e preti. Vide la luce cinquant'anni fa esatti. Ha continuato a vivere sotto traccia per decenni, sconosciuto ai più. È' tornato alla ribalta con il pontificato di Jorge Mario Bergoglio: «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!» (16 marzo 2013). Adesso ha rinnovato slancio, nella nuova versione  firmata a Napoli, sempre dentro delle catacombe.
 
Tutto cominciò durante il Concilio Vaticano II (1962-1965).  Già dalla prima sessione, un gruppo di vescovi e teologi si riuniva periodicamente al Collegio Belga per riflettere su “Gesù, la Chiesa e i poveri” e fare delle proposte all’assemblea. Prendendo spunto da una frase di Giovanni XXIII in un radiomessaggio un mese prima dell’apertura del Concilio (11 settembre 1962), l’iniziativa prese il nome di “Chiesa dei poveri”.
 
Molti vescovi latinoamericani si associavano a questa ricerca, tra i più noti monsignor Helder Camara del Brasile e monsingor Manuel Larrain del Cile. Ma c'eranop anche molti altri presuli, come monsignor Georges Mercier, vescovo di Laghout (Algeria), la diocesi di Charles de Foucauld, o come monsignor Charles-Marie Himmer, vescovo di  Tournai, in Belgio.
 
All'epoca, la figura più rappresentativa fu senza dubbio quella dell’arcivescovo di Bologna, il cardinale  Giovanni Lercaro, soprattutto grazie ad un intervento che fece in aula il 6 dicembre 1962. Il porporato propose di assumere il tema del “mistero di Cristo nei poveri” come centro dell’insegnamento dottrinale e dell’opera di rinnovamento di tutto il Concilio. Questa riflessione attraversò come un fiume sotterraneo il Vaticano II, affiorando di quando in quando nei testi conciliari.
 
Questa riluttanza non era dovuta alle scelte di papa Paolo VI, che anzi incoraggiò molto il cardinal Lercaro e, durante la terza sessione, fece di propria iniziativa un gesto molto eloquente: depose la sua tiara sull’altare di San Pietro come dono ai poveri.
 
All’impossibilità di vedere le loro intuizioni incarnarsi nei documenti conciliari, i sostenitori dell’iniziativa “Chiesa dei poveri” decisero di scrivere un testo, conosciuto come “Patto delle catacombe”, firmato alla fine di una celebrazione eucaristica presso le Catacombe di Domitilla il 16 novembre 1965, un martedì. Alla luce fioca della sera, chi sottoscrisse questo Patto (42 padri conciliari, diventati poi nel tenpo 500 vescovi) s’impegnarono a tradurre nella vita di tutti i giorni 12 punti.
 
In sintesi: «Vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto»; «rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti […]. Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca ecc.»; «tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli»; «rifiutiamo di essere chiamati con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…).
 
Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di padre». Venivano elencati altri aspetti per costruire una Chiesa più vicina ai poveri, «consci delle esigenze di giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni»: i contraenti si impegnavano a dare «quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi ecc. al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati»; «cercheremo di trasformare le opere di "beneficenza" in opere sociali fondate sulla carità e la giustizia»; «eviteremo di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni».

 
Il primo a dare notizia di questo Patto fu l'autorevole quotidiano francese Le Monde, l’8 dicembre 1965, giorno di chiusura del Concilio. Monsignor Luigi Bettazzi, allora vescovo ausiliare del cardinale Giacomo Lercaro di Bologna, è stato l’anello storico tra il Patto di cinquant’anni fa e quello di oggi, “siglato” ancora una volta presso delle catacombe, questa volta quelle di san Gennaro, a Napoli, lunedì 16 novembre 2015. Monsignor Bettazzi era presente.
 
Il “Patto delle catacombe” non ha esaurito la sua forza profetica, è una Magna Charta che dice del dover d’essere della Chiesa nel mondo: povera, libera dal potere politico e temporale e quindi in grado di assolvere meglio alla sua funzione di coscienza critica e di aprirsi con coraggio alle sfide della giustizia e della pace, della fame e dello sviluppo economico. I firmatari del nuovo Patto  (anche in questa nuova versione, dodici punti in tutto) si impegneranno ad «acquisire uno stile di vita sobrio in tutti gli ambiti della vita, nel cibo, nell’abbigliamento, nei mezzi di trasporto e nella Chiesa».

Condividendo ciò che hanno, scegliendo la sobrietà, facendo gesti etici anche in campo economico-finanziario («che combattono la speculazione, che non favoriscono il riciclaggio dei capitali nei paradisi fiscali, frutto di criminalità o di evasione e che non investono in attività, come l’industria delle armi, che causano sofferenza e morte»), rispettando la Terra e combattendo le mafie.
 
Pauperismo? No, Vangelo. E in solidarietà con i poveri, si impegneranno a «rimettere in discussione il sistema economico-finanziario i cui effetti devastanti si toccano con mano in questo Sud così martoriato e maltrattato», ad aprire i conventi e le chiese ai fratelli in difficoltà, a rispettare la Terra come “casa comune” di tutta l’umanità. 
 
Tra i firmatari della nuova versione del Patto ci sono, tra gli altri, padre Alex Zanotelli, monsignor Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta, don Luigi Ciotti, presidente di Libera, don Antonio Loffredo, parroco nel rione Sanità, a Napoli, il lombardo don Virginio Colmegna (presidente della Fondazione Casa della Carità di Milano), il toscano don Armando Zappolini (presidente nazionale del Cnca, Coordinamento nazionale comunità d'accoglienza), il piemontese don Renato Sacco (coordinatore nazionale di Pax Christi). 
 
Una discesa simbolica, un uscire per andare incontro a quelle che papa Francesco ha definito “periferie esistenziali”. Da abitare e abbracciare. Denunciando i meccanismi perversi che le rendono possibili.

 
Alberto Chiara