Don Olimpio arrivò a Fara che aveva dieci anni, ed aveva compiuto «gli studi elementari di grado inferiore», cioè la terza classe. Allora, nei piccoli centri, non c'era più di tanto; ma erano terze impegnative, dove il leggere e il far di conto avevano una parte assai importante e formativa. Era orfano di mamma da quando non aveva che un anno; il padre gli era morto che ne aveva uno e mezzo. Le persone care, alle quali far riferimento, erano la nonna, una zia e il fratello Lorenzo Attilio, maggiore di tre anni.  Sui banchi della scuola, l'aveva curato, con particolare attenzione, la sua maestra Maria Trussoni e s'era interessato con insistenza il parroco don Antonio Zubiani a farlo accettare: le buone doti, che già spiccavano, potevano sbocciare in una valida vocazione. Aveva tutta l'aria del piccolo montanaro, coi calzoni a mezza gamba; la semplicità s'accoppiava alla vivacità e soprattutto alla bontà. Inserito subito nei corsi ginnasiali, tenne il passo con gli altri che pur disponevano d'una miglior preparazione di base; ci volle qualche anno a mettere in evidenza le sue doti e raggiungere quel profitto che l'avrebbe posto al disopra di tutti. E' che la vivace intelligenza andava di pari passo con l'impegno costante.

Nel 1930 entrò in noviziato, allora sempre a Fara. Non rappresentò un normale avanzamento di tappa, segnò un punto miliare. Fu chiara a tutti la decisione con cui affrontava questo periodo di formazione intensa: esemplare nell'osservanza delle Regole, anche le più minute, quelle in cui i novizi scantonano più facilmente, per esempio quella del silenzio. Con una crescita rapida, arrivò alla professione, confermando il proposito deciso di «volermi dedicare al Sacerdozio nello stesso stato religioso che abbraccio». Per gli studi liceali e filosofici frequentò, sempre brillantemente, il seminario vescovile di Como, con residenza in Casa‑Madre. Poi scese a Roma, a frequentarvi, all'Università Urbaniana di Propaganda Fide, i corsi teologici. Il tempo disponibile, quello che avrebbe potuto riservare al giusto sollievo, lo dedicò ai buoni‑figli dell'annesso ricovero che l'ospitava. Arrivò al sacerdozio che aveva frequentato l'università per tre anni, con una duplice dispensa pontificia: sei mesi d'anticipo sull'età canonica e per non aver ancora iniziato il quarto anno di teologia. Per gli studi si era già meritata una medaglia d'argento e una d'oro, che offrirà alla Madonna, quale filiale e riconoscente omaggio. Era ammirevole infatti la serietà con cui si applicava: in cinque anni preparò la licenza e la laurea in teologia, si iscrisse alla facoltà di diritto canonico all'Università Gregoriana e vi conseguì licenza e laurea. Il risultato: Summa cum laude.

Intanto i superiori cominciavano ad affidargli alcuni incarichi: prefetto degli studenti e aiutante del procuratore generale nel 1943; due anni dopo, quelli di secondo consigliere della casa, rettore del seminario minore e vice‑postulatore generale. In particolare, il Superiore generale gli affidava l'animazione della grande comunità, raccomandandogli di supplire alle negligenze e di togliere gli inconvenienti. Non era trascorso un anno, che lo richiamarono al Nord, affidandogli la direzione della casa di Barza e la formazione dei numerosi chierici novizi e professi. Per essere loro maestro non aveva l'età canonica: gli chiesero ed ottennero la necessaria dispensa. Quattro grossi quaderni, fortunatamente conservati, di conferenze e prediche ai chierici, mettono in evidenza la chiarezza della sua linea, nello sforzo di formare buoni religiosi guanelliani. A chi mancava di decisione, consigliava l'altra strada.

  • Tu ne dimetti troppi —, gli fece notare un confratello.
  • Non ho mai mandato via nessuno — fu la risposta serena —; si sono ritirati da soli.

Lui li aveva aiutati col suo saggio consiglio nella scelta. Perché era veramente uomo di consiglio, fornito di acume, di prudenza e soprattutto dello Spirito di Dio. Lo sapevano bene i confratelli che, sei anni dopo, nell'ottavo Capitolo generale della Congregazione, lo elessero a far parte del Consiglio generale, con l'incarico di segretario. Fu logico il suo trasferimento a Como, per sua decisione, pur contro il parere del Superiore generale. Il lavoro che l'attendeva era tanto: guida al settore formativo della Congregazione e delle Associazioni Ex‑allievi, la compilazione del «Charitas»; inoltre assistenza a molte comunità femminili guanelliane e non, giornate vocazionali e predicazione.

Il Capitolo successivo, il nono, lo rielesse con gli stessi incarichi. Nel decimo invece, celebrato a Barza tra il 20 e il 23 luglio 1964, non venne rieletto. Ebbe la nomina a procuratore generale, ma credette bene di declinarla. I disegni di Dio si manifestarono in seguito: per il governo della Congregazione, gli sarebbe occorso un più immediato contatto con le attività e le realtà dell'Opera. Al momento ne restò turbato, vedendovi una specie di rifiuto della sua persona. Ma vinse la sua virtù e si rasserenò. Restò a Como fino al novembre, in ossequio all'orientamento del Capitolo di non procedere al trasferimento dei confratelli se non per casi urgenti e veramente indispensabili, fino alla Beatificazione del Fondatore. Questa era imminente e per lui fu una grande gioia potervi partecipare: era il padre del suo spirito e della sua famiglia religiosa, era il convalligiano. L'anno 1965, voluto come anno guanelliano, vide prolungarsi le celebrazioni: l'urna, con la salma del nuovo Beato, passò venerata e festeggiata per tutti i paesi della diocesi. Don Olimpio fu uno degli accompagnatori più instancabili e dei predicatori più richiesti, per illustrarne la vita, la spiritualità, la carità. Intanto, appena il nuovo Consiglio poté prendere il suo ritmo normale, egli si vide preposto superiore ad Anzano, nella comunità del seminario minore. L'anno dopo gli affidarono anche l'economia.     Curò i giovani aspiranti, animò soprattutto la comunità religiosa, allora di quindici confratelli, sforzandosi d'imprimerle un tono di unità e di gioiosità. Lo stesso ripeté a Milano, dove fu inviato per il triennio seguente. Pregò d'affidare ad altri la cura parrocchiale, che gli era stata congiuntamente offerta; molti altri problemi lo assorbivano circa le due Congregazioni guanelliane, la maschile e la femminile, della quale, nel frattempo, era stato nominato consultore. Lasciò gran parte del lavoro educativo ai suoi diretti collaboratori. Doveva attendere alla preparazione del Capitolo speciale: e le commissioni del governo e della formazione gli richiedevano studio personale e consultazione di esperti. Il Capitolo si aprì il 7 ottobre 1969 e si svolse in due sessioni, la prima a Gazzada (Villa Cagnola) e la seconda a Roma (Collegio Spagnolo). Don Olimpio vi fu eletto moderatore — era la prima volta che entrava in azione questa figura — e ne uscì Superiore generale.

Esula da queste note ricordare la sua opera nell'espletamento del mandato.

Ricorderemo:

  • il desiderio della fedeltà, ricevuto come consegna dalla bocca del Papa;   — il contatto coi confratelli nelle case d'Italia e dell'estero: a questi dedicò complessivamente ben 241 giorni;
  • l'attuazione delle delibere capitolari, quali il trasferimento della casa generalizia e poi del seminario teologico a Roma;
  • la costituzione delle Provincie; la stesura, l'approvazione e la pubblicazione dei nuovi testi costituzionali;
  • i primi capitoli provinciali, la prima consulta, la visita canonica. 

Il successivo Capitolo generale, che si svolse ad Ariccia, dal 7 luglio al 3 agosto 1976, lo rielesse con una votazione plebiscitaria, al primo scrutinio. Accettò, in ossequio alla volontà di Dio: Fiat Voluntas Tua, scrisse sul diario delle Messe. Riprese il suo «servizio d'amore», con lo stesso stile e lo stesso ritmo. Ma cominciarono presto, l'anno seguente, i malanni: una calcolosi renale, che si risolse solo con l'intervento chirurgico; un penoso glaucoma all'occhio sinistro, anche questo curato con un lungo periodo di terapia in ospedale. Poi, l'ultimo grande male, il tumore al rene, già in metastasi, che lo inchioderà al letto, crocifisso col suo Signore. Fu diagnosticato in Argentina e si manifestò con affaticamento, precoce invecchiamento, forte emorragia. Rientrato a Roma, fu necessario il ricovero d'urgenza, si chiuse al Policlinico Gemelli, dove, dopo cinque mesi di dolori strazianti, con due inutili operazioni, giunse la serena morte. Se sempre era apparsa, come luce riflessa del suo spirito, la grande virtù, questa, nella malattia e nella morte, brillò in tutto il suo fulgore. La serenità mai persa, l'accettazione eroica del dolore, l'abbandono alla volontà del Padre dissero l'alto grado di perfezione raggiunto. Desiderò chiudere nella sua casa, a ringraziare della vocazione guanelliana, povero fra i poveri, tanto amati e amorevolmente serviti. Fra le ultime raccomandazioni: «Il Signore ha troppa fame ancora oggi; siate generosi con i poveri, con gli affamati del Terzo Mondo. Abbiamo troppi soldi..., date..., date!». C'è qui l'eco del Vangelo e dell'insegnamento del Fondatore: i grandi maestri della sua vita, sui quali aveva modellato la sua eccezionale figura di sacerdote e di guanelliano.